Tra fare cassa e fare una riforma passa una differenza che vale più di 150 milioni di euro. E se si tratta della Rai, cioè della più grande major italiana di informazione, cultura e spettacolo, allora la differenza non è misurabile soltanto in termini economici. Ne vanno di mezzo il pluralismo, la libera concorrenza e in definitiva la qualità della vita democratica.
Con il “prelievo forzoso” disposto dal governo attraverso il decreto Irpef, l’azienda pubblica sarà costretta a ridurre i costi di circa il 5% sul bilancio 2012, l’ultimo disponibile: assai meno di quanto non abbiano dovuto fare in questi ultimi anni la maggior parte delle famiglie italiane. Ma non è tanto il “quantum” che conta, bensì il modo e il risultato finale di questo intervento.
A parte il fatto che una ristrutturazione effettiva potrebbe produrre risparmi di gran lunga maggiori, qui c’è un evidente intento punitivo nei confronti dell’azienda di Stato, oberata da un’antica eredità di lottizzazione e malcostume, afflitta dall’occupazione della politica e dalle ingerenze dei partiti. Per fugare qualsiasi dubbio o sospetto in proposito, nel testo del decreto basterebbe collegare il taglio di 150 milioni con la prevista vendita del 40% di Raiway, la società che gestisce i “ponti” di trasmissione e le parabole.
Non è, comunque, lo sciopero annunciato dai sindacati per l’11 giugno lo strumento più efficace per rispondere alla decisione del governo: questa reazione può risultare, anzi, controproducente e autolesionistica rispetto all’urgenza del risanamento. E bene hanno fatto i giornalisti della Rai a sospenderlo, a fronte degli impegni assunti dalla controparte sull’anticipo del rinnovo della concessione al 2014, sul mantenimento delle sedi regionali e sulla lotta all’evasione del canone. Ora si tratta di avviare quanto prima un confronto su un nuovo piano industriale, per riorganizzare la Rai dalle fondamenta al di fuori di ogni tendenza alla conservazione e al corporativismo. Certo, occorre intanto ridimensionare i costi e i compensi, da quelli dei dirigenti a quelli di certi giornalisti, autori o conduttori. Ridurre le spese e gli sprechi. E soprattutto, mettere mano al “buco nero” degli appalti e delle produzioni esterne: per citare un solo esempio, non c’è alcun motivo plausibile per cui un format di successo come “Braccialetti rossi” debba costare 220mila euro a puntata se viene prodotto per la tv spagnola e oltre un milione se viene realizzato per quella italiana. I tagli e la lotta agli sprechi, dunque, sono senz’altro opportuni e necessari. E tuttavia, non bastano a risanare e rilanciare il servizio pubblico radiotelevisivo. L’unica vera riforma sarà l’estromissione della partitocrazia dall’azienda, per affrancarla dalla sua cronica subalternità al potere politico. “Mamma Rai” va perciò rifondata, non indebolita o smantellata. Altrimenti, senza saperlo e senza volerlo, si rischia di favorire la tv privata a danno del pluralismo e della libera concorrenza.
Una volta prelevati questi 150 milioni di euro per fare cassa – appunto – e integrare così le “coperture” per elargire gli 80 euro a dieci milioni di lavoratori, prima o poi il governo Renzi dovrà misurarsi con un progetto organico di riforma sulla “governance” della Rai e sulle sue fonti di finanziamento. Due condizioni ineludibili per ridefinire un modello di servizio pubblico, come lo stesso sindacato interno dei giornalisti reclama da tempo, in modo da assicurare all’azienda un ruolo e un futuro anche in rapporto all’evoluzione tecnologica nell’era di Internet. A meno che, a differenza degli altri Paesi europei, non si voglia procedere invece sulla strada della privatizzazione e in questo caso sarebbe meglio dichiararlo apertamente, aprendo magari un dibattito pubblico.
Bisogna essere consapevoli, però, che la Rai è l’architrave dell’intero sistema dell’informazione in Italia. Se viene modificato il suo assetto, cambierà di conseguenza l’equilibrio del mercato editoriale e pubblicitario, per tutti i media vecchi e nuovi. E per quanti vizi e difetti si possano legittimamente imputare al vecchio “carrozzone di Stato”, non è affatto detto che senza la radiotelevisione pubblica lo scenario sia destinato sicuramente a migliorare.
La Repubblica 07.06.14