Abbimo tentato di tracciare una mappa delle parole utili a “riscrivere il Paese”. Per echeggiare il titolo della Repubblica delle Idee, che si apre oggi a Napoli. Parole estratte dai discorsi pubblici e dai dialoghi della vita quotidiana. Dalla comunicazione dei media e dal linguaggio comune. Le abbiamo sottoposte alla valutazione dei cittadini, intervistati attraverso un sondaggio condotto da Demos-Coop. Ne abbiamo ricavato una rappresentazione interessante. Anche se i sondaggi non godono di buona fama, in questi tempi. Tuttavia, chi li considera non degli oracoli, ma strumenti per cogliere gli atteggiamenti del (e nel) presente, ne può trarre indicazioni — a mio avviso — utili. Circa i riferimenti della società e le parole per dirli. Il che, in parte, è lo stesso. Ne esce una raffigurazione, per molti versi, coerente con le attese. Ma, comunque, significativa. Perché supera il perimetro dello stereotipo.
Se partiamo dal “fondo”, la regione della mappa in basso, a sinistra, dove si concentrano le parole che combinano un sentimento ostile con una previsione negativa, circa l’importanza futura, incontriamo subito Berlusconi, accanto a Grillo e agli ultras (del tifo). Parole “gridate”. Come i loro protagonisti. Spinti ai margini, ma tutt’altro che marginali. Al contrario. Perché dividono.
Descrivono un “Paese in curva”, nel calcio come in politica. Dove la maglia e la fedeltà servono a marcare i confini contro gli altri. I bianconeri e i nerazzurri. Rossoneri e giallorossi. Comunisti e berlusconiani. Da mandare tutti quantia Vaffa… Appena più in su, incontriamo le “parole di ieri”. Indicano soggetti senza futuro, oltre che deprecabili e deprecati. Ma, si sa, i sentimenti, spesso, colorano anche le previsioni… Le “parole di ieri”, comunque, hanno una specifica connotazione “politica”. Associano i partiti ai politici. Ma richiamano anche alcuni progetti di riforma. Il presidenzialismo e lo stesso federalismo. Ieri professato da tutti. A parole (appunto). Oggi non piace e non ha futuro. O forse: non ha futuro perché non piace più. D’altronde, la stessa Lega preferisce agitare la bandiera della (in)sicurezza, piuttosto di quella padana. Lo stesso “declino” spinge, nelle parole di ieri, lo Stato (mai come oggi, un participio passato). Ma anche l’Euro, “svalutato” anche rispetto all’Europa. Perché è una moneta senza Stato.
Colpisce, semmai, che in questo settore del campo finiscano anche le manifestazioni e la protesta. Le manifestazioni di protesta. In fondo: la partecipazione. Ma ciò suggerisce che la critica verso la politica e le istituzioni non produca (e non si traduca in) mobilitazione e indignazione attiva, come in altri Paesi. Ma, piuttosto, distacco e disgusto politico. “Gridato”.
Così, il presente è affidato a Renzi. Unico soggetto politico che ottenga un giudizio positivo, anche in prospettiva. Ciò avviene anche perché risponde alla domanda — diffusa — di un “leader forte”. Renzi. Tra le parole del nostro tempo, è posizionato, non a caso, accanto ai media “tradizionali”: giornali, radio. E soprattutto la Tv. Perché restano determinanti per comunicare in modo “personale”. E per costruire il consenso. Insieme, vecchi e nuovi media, disegnano una “democrazia ibrida”. Che insegue il mito della democrazia diretta, attraverso la rete. Ma riproduce, al tempo stesso, i riti del governo rappresentativo, al tempo della personalizzazione. La democrazia del pubblico, che si sviluppa, soprattutto, attraverso la televisione.
In alto a destra, infine, c’è il lessico del futuro. Le parole che evocano un orizzonte atteso. I valori condivisi e le speranze diffuse. Ma anche le domande più urgenti — e insolute. Premiare il merito, combattere la disoccupazione, prima di tutto. Ma anche l’evasione fiscale. Tutelare l’ambiente, valorizzare le energie rinnovabili. Promuovere la crescita economica e gli imprenditori. Lavorare per il bene comune. Potrebbe apparire la lista dei desideri inarrivabili. Dei buoni sentimenti, che è facile invocare, assai meno realizzare. Però, è interessante e, comunque, importante che continuino
ad essere evocati e invocati. Come la democrazia e il popolo — sovrano, che ne è il fondamento. E come i giovani. Segno di un futuro che fugge. Letteralmente. E ci lascia sempre più soli e più vecchi. E sempre più delusi.
In cima, come l’anno scorso, è Papa Francesco. Riferimento condiviso da tutti. Perché, più di tutti, ha saputo trovare “parole” in grado di orientare il linguaggio del nostro sconcerto quotidiano. Per dire, senza vergogna e senza violenza, cose tanto comuni quanto eccezionali, nella loro normalità. Perché, per riscrivere il Paese, non occorrono parole nuove, diverse dal passato. Servono parole “credibili”. Che, per essere tali, però, debbono essere pronunciate — e testimoniate — da persone credibili. Da soggetti e istituzioni credibili. In modo credibile. Ma proprio qui sta il problema, raffigurato bene da questa mappa. Che rende evidente la distanza fra le parole della democrazia e del cambiamento, eternamente proiettate verso il futuro. E gli attori che le dovrebbero recitare e tradurre: imprigionati nelle parole di ieri. Oppure specializzati nell’agitare i sentimenti e, ancor più, i ri-sentimenti. Impegnati a dare volto e voce, anzi, grida, alla delusione e alla rabbia. Con l’esito di moltiplicare la delusione e la rabbia. Facendo apparire i valori, i luoghi e le persone che evocano il futuro: parole senza tempo. In-attuali. E inattuate.
******
Le ricette del Nobel Spence “Flessibilità e leader giovani la vostra ripresa parte da qui”, di EUGENIO OCCORSIO
«CON la velocità delle trasformazioni tecnologiche, la parola d’ordine è: flessibilità. Quella che manca in Italia ». Michael Spence, classe 1943, economista della New York University, premio Nobel 2001, ama e conosce l’Italia. Ospite a Napoli della Repubblica delle Idee, domani dialogherà con Giuseppe Recchi, presidente di Telecom, e Giovanni Castellucci, numero uno di Autostrade, sulla “ripresa al rallentatore” del nostro Paese e sui rimedi. Appuntamento alle ore 12, al Teatrino di Corte di Palazzo Reale.
A quale flessibilità si riferisce: quella del lavoro, dei modelli produttivi, o di cambiare in base al mercato?
«A tutte. La mia proposta è che si insedi un comitato presso la presidenza del Consiglio, fatto di economisti, sindacalisti, imprenditori, politici, sociologi e psicologi. Per individuare con rapidità i cambiamenti in corso e i trend del futuro prossimo, sul mercato domestico e internazionale, per concentrare gli sforzi in quella direzione. Le risorse pubbliche sono poche, è essenziale indirizzarle dove servono investimenti, infrastrutture. In pochi Paesi esiste una struttura del genere, oggi i più rapidi nell’identificare le potenzialità a livello mondiale sono i cinesi».
E in America?
«Anche lì le infrastrutture sono carenti e la tecnologia viaggia così veloce che non si riesce a tenerne il passo. Altrettanto i capitali. Il lavoro meno, e infatti la disoccupazione resta alta. Però l’America ha una “antirigidità” innata, un’idiosincrasia verso la burocrazia, un sistema universitario formidabile a vocazione internazionale, una predisposizione al cambiamento».
I cambiamenti tecnologici più importanti vengono da lì: il software, l’e-commerce.
«La rivoluzione tecnologica crea opportunità per chiunque voglia agganciare la ripresa. La catena del valore mondiale ha creato una “atomizzazione”: servizi legati a conoscenze, capacità tecnica, informazione e comunicazione che non richiedono la prossimità fisico-geografica. Tutto sta nell’identificare in quale segmento della catena collocarsi. Per l’Italia non c’è più solo la tradizionale leadership in settori come moda e design».
L’America ha lo status di superpotenza finanziaria oltre che politica.
«L’avere amministrazione e banca centrale che funzionano in sinergia è importante, l’Europa invece è divisa e con una Bce esitante. Ma è più importante la leadership politica, Paese per Paese. Servono leader giovani, pieni di energia, non legati a vecchi schemi di potere, decisi a cambiare. È la condizione che avete adesso: sta a voi non sprecare l’occasione ».
La Repubblica 05.06.14