attualità, cultura

"Rai e politica: il momento del coraggio", di Stefano Balassone

La Rai si sente a nudo perchè per la prima volta dacchè esiste, il governo in carica ne rovescia, come si usa dire oggi, la «narrazione». Così il presidio del «pluralismo» viene letto come stanca eredità di lontane lottizzazioni; la presenza «territoriale» è commistione con il notabilato delle caste politiche locali; la sfida a Mediaset come una semplice ammuina dentro la oggettiva consociazione del duopolio.

E ancora: le «torri» come un patrimonio sì, ma sottratto al mercato (del resto non c’è Servizio Pubblico che abbia torri proprie) per non turbare il parallelo business di Mediaset (e non solo di Mediaset); il finanziamento di fiction come una spartizione a spese della qualità, tant’è che i prodotti all’estero non si vendono.

È per caso ingiusto e infondato questo rovesciamento della narrazione Rai? No, non è affatto infondato e chi lavora in Rai, ognuno per la sua parte, lo sa o dovrebbe saperlo, dal giornalista dell’ennesima testata al funzionario che appone il visto all’ennesimo contratto. La maniera brusca con cui il governo ha posto la questione «150 milioni» ha avuto di sicuro il merito di far esplodere, qui ed ora, il tema vero che incredibilmente veniva nascosto sotto il tappeto della retorica aziendalista e di mestiere: quello del «vuoto di senso» in cui la Rai si è venuta a trovare, nel pieno di una strutturale crisi della pubblicità e mentre l’evasione dal canone, già altissima e senza paragoni all’estero, aumenta (altro che «lotta all’evasione» che oggi sembra un appello a rincorrere i buoi che sciamano tumultuosamente dalla stalla).

Crisi di «senso» e crisi dei ricavi hanno scavato un vuoto strategico, che può essere affrontato solo con una rapida e profonda rottura della continuità editoriale e organizzativa. Quanto rapida e quanto profonda? Mai abbastanza, diremmo, perché il tempo non lavora a favore. E veniamo allo sciopero, la cui proclamazione è parsa un atto «contro» e non un passo «per». Dove il contro, condito di pareri legali, era rivolto alla questione delle torri e delle sedi regionali, come se si trattasse di difendere le casematte attaccate dal nemico, anzi- ché uscirne di slancio per essere i primi a porre all’azionista i problemi di fondo che abbiamo sommariamente quanto ansiosamente ricordato.

Ora pare che il nodo strategico stia arrivando al pettine, tanto che l’anticipo del rinnovo della Concessione, che ancora pochi mesi fa, perduti nelle favole del canone frammentato in mille bolle blu (altro che ruolo centrale della Rai) nessuno, lavoratore o sigla sindacale (per non parlare del governo), nominava, appare una mossa obbligata. Per l’urgenza dei problemi, non per rabbonire o dare contentini.

E da qui inizia la sfida sui contenuti. Perché per rifondare il rapporto col Paese, a cui si chiede di pagare l’esistenza del Servizio Pubblico come si fa negli altri Paesi europei, sarà necessaria una enorme quantità di coraggio e di lucidità. Da parte della politica, perché serve una legge, che quindi dovrà essere votata dai parlamentari nonostante che molti di essi siano legati alla Rai e/o al duopolio attuale; una legge che, per l’oggi e per il futuro, stacchi le loro stesse mani dall’azienda.

Ma anche da parte dell’azienda, intesa come l’insieme di chi ci lavora, perché nel momento in cui smetterà di essere appesa alla politica dovrà mettere i piedi per terra: altri muscoli coinvolti, altro modo di guardare al mondo, altre priorità, altra organizzazione. E le riorganizzazioni, anche quelle condotte con la mano più delicata, se sono vere non sono mai del tutto indolori. Certo, se mai ci si arrivasse, potrebbero essere finalmente i dolori del parto, e non quelli, attuali, dell’artrite deformante.

L’Unità 04.06.14