La vittoria di Renzi sta suscitando molte aspettative nel paese, in tutti i settori, compresa la Confindustria. Si capisce: come è stato detto da molti, il successo elettorale del premier è dovuto alle speranze che ha saputo suscitare.
Le ha suscitate in molti strati della nazione compresa un’area mode- rata che si era finora riconosciuta in altre forze politiche. Certo, ha giocato in questo la volontà di contrastare Grillo e Casaleggio che hanno suscitato negli italiani antiche paure con le loro parole minacciose. Ma c’è stato anche altro in quel voto. Renzi è stato avvertito come portatore di idee finalmente nuove, di posizioni finalmente estranee al tradizionale gioco politico. Questa è stata fin dall’inizio la sua forza: aver intercettato sentimenti di speranza, desideri di muta- mento, la voglia di uscire dalla palude. Simmetricamente, il risultato del voto sta provocando reazioni e preoccupazioni nella destra, che comincia a interrogarsi sulle conseguenze dello stato di frantumazione in cui si trova.
In questa situazione il premier quale politica vuole fare? Diceva Horkheimer, parafrasando Marx, che gli uomini vanno giudicati per quello che fanno, non per ciò che credono di essere. Da quello che ha già cominciato a fare si può dire che Renzi ha l’ambizione di «modernizzare» il paese, in nome di un progresso collettivo, non solo dello sviluppo di alcune parti del paese o di alcuni raggruppamenti sociali. Questo significa che dovrà misurarsi con alcune questioni strutturali della storia italiana: il divario tra Nord e Sud; il potere della burocrazia; le fortissime, e storiche, diseguaglianze sociali; la potenza impermeabile delle corporazioni. Problemi antichi ai quali se ne sono ag- giunti altri e diversi: la questione demografica; il problema della disoccupazione giovanile; il rapporto tra i generi. E mi fermo qui, per non imitare il catalogo di Leporello…Per fare questo in democrazia ci vuole ampio consenso. E il premier in questo momento ce l’ha, vasto e robusto. Ma è anche il primo a sapere che esso non è eterno. Anzi, attraversiamo un’epoca nella quale gli schieramenti elettorali sono friabili, si compongono e si scompongono sotto l’impulso di molteplici fattori. Questa eventualità è tanto più forte proprio per- ché la politica del premier è destinata, per la sua radicalità, a toccare interessi forti, capaci di resistere e reagire come sono riusciti sempre a fare nella nostra storia. È una battaglia sacrosanta ma difficile: riuscire a «modernizzare» il nostro paese intrecciando progresso e sviluppo è stato l’obiettivo degli uomini più lungimiranti delle nostre classi dirigenti, ma in genere hanno pagato duramente per i loro sforzi. Ma non serve decifrare Renzi e i suoi obiettivi con vecchie categorie: il suo Pd non è la Dc (della quale facevano parte uomini come Gioia, Gava, Bisaglia …), tanto meno è un erede di Berlusconi. Se poi si vuol parlare di «interclassismo» va detto che esso è di tipo nuovo e che, in ogni caso, ha la punta chiaramente rivolta a sinistra.
Per questo la lotta sarà assai dura e oggi non è possibile prevedere quali saranno gli esiti, anche perché non è facile comprendere in che modo si schiereranno le forze sociali quando l’azione del governo diventerà più efficace e penetrante. A sinistra, la questione demografica incide nella tenuta degli schieramenti tradizionali (come si vede in modo clamoroso in Francia); nell’area moderata non è facile immaginare come si muoveranno gli strati che si sono accostati a Renzi anche per una esigenza di garanzia contro Grillo e Casaleggio; altrettanto difficile è prevedere se le destre riusciranno ad organizzarsi con successo in una sorta di nuovo ressemblement comprendente la Lega. Lo scenario è molto complesso e pone alcuni problemi di ordine strategico. Un tratto che ha caratterizzato finora l’azione di Renzi è il fatto che essa si è svolta «dall’alto». Se ne comprendono i motivi: vuole bruciare le tappe, stordire gli avversari prima che si organizzi- no. Nel suo disegno, la velocità è una scelta strettamente politica, connessa a una cultura alla quale sono sostanzialmente estranee l’idea della mediazione e anche la persuasione che si governi «dal centro». Qui davvero, rispetto alla prima e alla seconda Repubblica, siamo entrati in una stagione diversa. Tutto chiaro. Però la storia e la riflessione politica ci insegnano che quando si governa «dall’alto» si corrono seri rischi, anche quelli del fallimento dei progetti più seri ed ambiziosi. Ci vuole un largo consenso per farcela, specie quando si vuole avviare una stagione di riforme radicali, ed essere organizzati.
Se Renzi vuole vincere la sua battaglia, che coincide oggi con gli interessi della Nazione, ha perciò bisogno di mettere alla base della sua azione salde fondamenta organizzative, dando un respiro ideale alla sua azione. E per far questo ha bisogno di una forza strutturata – qualunque sia il nome che si voglia darle – che non svolga una funzione subalterna o caudataria, come l’intendenza di Napoleone, o che si raccolga e si organizzi solo nel momento delle primarie. Il premier deve mettere subito in campo una forza in grado di sostenere in mo- do costante e propositivo l’azione politica del governo, specie quando essa comincerà a tagliare nella carne viva dei vecchi privilegi e le forze ostili al cambiamento aumenteranno la loro pressione. Quando dico questo però non mi riferisco alle forme tradizionali della politica: la «nostalgia del passato» serve agli storici, non ai politici. Senza un leader oggi non si fa politica. Ma senza una forza organizzata – e capace di esprimere una prospettiva anche sul piano ideale – un leader rischia di cadere perché non può governare e svolgere un’azione riformatrice in «assenza di gravità». Per farlo ha bisogno di potenti contrafforti che ne sostengano l’azione, specie quando, come in questo caso, si propone di riformare strutture antiche, e potenti, della vita del paese.
L’Unità 01.06.14