Di scuola si parla quasi sempre da fuori. Parlano gli ex insegnanti, gli ex alunni, parlano i sociologi, parlano i ministri, gli ex ministri, parlano gli scrittori. Difficile che se ne parli da dentro; raro che chi ha ancora davvero a che fare con i banchi e le aule insegnanti, studenti, collaboratori scolastici, genitori sia interpellato e chiamato in causa. Ciascuno ha un’idea di scuola, di come dovrebbe essere: meno frequente che sappia com’è realmente, con quali problemi concreti deve confrontarsi ogni mattina. Allora può bastare una lettera, la lettera di un rappresentante dei genitori di un liceo romano, per sentire che vento soffia dentro la scuola. Gianfranco, un padre, si rivolge ai ragazzi, ai figli. Prende le mosse da un episodio specifico: l’installazione di telecamere all’interno della scuola per individuare studenti spacciatori o detentori di droga. Le polemiche sono state feroci; è seguito un incontro tra docenti, genitori e dirigenza. Nella lettera, di cui riportiamo alcuni brani in questa pagina, si legge fra l’altro: «Vi scrivo per chiedervi scusa. Fino al giorno della mia elezione come rappresentante avevo vissuto la scuola di mia figlia come “semplice” genitore». Poi cosa è accaduto? Dice Gianfranco di essere un ottimista deluso, dice che sedendo in consiglio di istituto ha percepito «una certa dose di autoreferenzialità burocratica» e di chiusura, fino a un muro contro muro che somiglia a un conflitto. «Tutto nel liceo avviene contro. C’è sempre un nemico». Ma Gianfranco difende l’opportunità dell’intervento dei genitori sulle scelte della scuola: non è delegittimazione dell’autorità della scuola, è o dovrebbe essere un dialogo necessario. Rispetto alla questione della droga, sono stati individuati grazie alle telecamere sei studenti, le conseguenze saranno pesanti, «ma lo stesso giudice è agli atti ha scosso la testa, chiedendosi: dov’era la scuola? Possibile che nessuno abbia fatto qualcosa?». Gli interrogativi di Gianfranco toccano il tema centrale del mandato educativo della scuola. Lo scopo della scuola, e della scuola superiore in particolare, è solo quello di trasmettere informazioni? «L’educazione come processo morale e culturale sparisce per far posto alla conoscenza come processo individuale di cattura ed elaborazione dell’informazione. (…) La scuola non se ne occupa più, ci pensino le famiglie, se proprio vogliono» scriveva Giuseppe Mantovani in un libro del 1998, L’elefante invisibile, in cui a partire da alcuni episodi di cronaca scolastica statunitense ragiona sul rapporto educazione/repressione. La lettera di Gianfranco è sintomatica di un disagio, racconta la difficoltà di rapporto fra genitori e docenti. L’«interferenza» si traduce in attrito: gli insegnanti sentono messa in discussione la loro autorità/autorevolezza, si asserragliano, talvolta anche giustamente, dietro alla cattedra. Si sentono in sostanza delegittimati: lo racconta bene Andrea Bajani nel suo La scuola non serve a niente, appena pubblicato da Laterza. «Ho pensato scrive Bajani a quei professori che poi la mattina si siedono alla cattedra e abbassano la testa spaventati perché negli occhi dei ragazzi vedono gli occhi dei genitori che gli hanno urlato in faccia il giorno prima». Forse è per questo che Gianfranco precisa, a scanso di equivoci: «le professoresse della classe di mia figlia lo sanno: per me sono delle eroine». Svilite, malpagate. Ma questo non toglie, aggiunge, che compattarsi in una sfida contro «certi genitori» non porti da nessuna parte. Simone Giusti, insegnante che si occupa da anni di orientamento e formazione, commenta così: «Non sono tanti in Italia i genitori che riescono con questa capacità di ragionamento a dialogare con la scuola. E non trovo niente di scorretto nella lettera. Credo che però si debba allargare lo sguardo oltre i licei, e pensare ai genitori che non hanno questa capacità argomentativa né i mezzi per dialogare con la scuola. Si sentono esclusi, o peggio, si auto-escludono. Sono assenti. Questo avviene soprattutto negli istituti professionali e in contesti che definiremmo svantaggiati e difficili. La scuola non ha paura dei genitori, quando sono assenti. Quando sono presenti è questo il paradosso sembra invece spaventata». Come se ne esce? La scuola non può imporre, spiega Giusti: da quella che avverte come «interferenza» dei genitori dovrebbe aprire lo spazio del dialogo, del coinvolgimento. Vieni dalla mia parte, dovrebbe dire la scuola al genitore, facciamo il cammino insieme. «Quando la scuola arriva a dover ricorrere a un giudice per fare il proprio lavoro, significa che ha delegato, o forse addirittura abdicato». Giusti è d’accordo con il genitore firmatario della lettera aperta: quando si sente abbandonata, priva di un mandato sociale, l’istruzione si rifugia nel tecnicismo, nella burocrazia. Perde l’anima, insomma. «La riforma dell’autonomia scolastica è rimasta a metà, incompiuta. Gli insegnanti sono come numeri impazziti assegnati dal ministero a questa o a quella struttura. In queste condizioni non è facile costruire una comunità educativa e si rischia di dare forma a un’entità burocratica arcigna e senza strumenti. Da anni il ministero è in mano a tecnici, e non era questa la strada intrapresa tra gli anni Settanta e i Novanta, il cammino è interrotto e andrebbe ripreso». Forse il mezzo non è quello di alcuni questionari vagamente surreali che alcune scuole hanno spedito, tramite i ragazzi, ai genitori. Domanda: questa scuola ha una buona attenzione nella proposta formativa rispetto alla necessità di contribuire ad educare e formare lo studente dal punto di vista umano? Il quesito è già di per sé un po’ farraginoso, ma il vero problema sono le opzioni di risposta: molto in disaccordo, in disaccordo, d’accordo, molto d’accordo. Ma su cosa? E con chi?
L’Unità 31.05.14