Sarebbe fin troppo facile mettere in sequenza le parole di Squinzi e le Considerazioni Finali di Visco, e leggerle come un convinto sostegno al «governo Leopolda». Cioè l’ennesima prova del solito vezzo italiota, che spinge tutti a salire sul carro del vincitore. È chiaro che il plebiscito riscosso da Renzi alle europee induce partiti, istituzioni e corpi intermedi a ripensare ruoli e collocazioni. Non serve aver studiato Gramsci, per capire l’importanza del consenso nei rapporti di forza e, in prospettiva, nella costruzione di un’egemonia. Dunque c’è anche questo, nell’apertura di credito sulle riforme tributata l’altro ieri dal presidente di Confindustria, e rilanciata ieri dal governatore di Bankitalia. Il riconoscimento di una grande legittimazione, che obbliga a una grande responsabilità. Con il voto del 25 maggio, gli elettori hanno detto a Renzi: vogliamo fidarci di te, ma ora fai
quello che hai promesso.
SQUINZI e Visco gli ripetono la stessa cosa. Ora hai la forza: usala non più solo per raccontarci come va cambiato il Paese, ma per cambiarlo davvero.
La Banca d’Italia non si limita a dire al premier che è sulla buona strada, con il bonus Irpef da 80 euro alle famiglie e con l’accelerazione del pagamenti dello Stato alle imprese. Lo ammonisce a non abusare della solita leva fiscale (visto che la nuova Tasi inciderà in molti comuni più della vecchia Imu). E gli suggerisce una vera e propria sfida keynesiana. Il rigore è servito a sanare i conti pubblici, anche se il debito resta intollerabilmente alto. Ma i costi dell’austerity, combinati con la Grande Crisi, sono stati micidiali. La crescita latita, e la deflazione incombe.
Per questo urgono le riforme che scandiscono il crono-programma renziano. Con due caveat, fondamentali. Il primo: le riforme non basta annunciarle a Palazzo Chigi e presentarle in Parlamento, bisogna tradurle in pratica (se è vero che solo il 48% delle 69 leggi di riforma varate tra novembre 2011 e aprile 2013 sono arrivate alla fase attuativa). Il secondo: la ripresa non verrà, e i posti di lavoro non nasceranno, se alle riforme non si accompagna un coraggioso rilancio degli investimenti (negli ultimi 4 anni quelli pubblici sono crollati del 30%, nel 2013 quelli privati sono scesi al 17% del Pil, livello più basso del dopoguerra). Aumentare la produttività è necessario, ma è inutile se non si rimette in moto la domanda. Non serve esser rimasti folgorati sulla via tracciata da Thomas Piketty, per rendersene conto.
Stavolta c’è anche un altro messaggio, che viene dalle élite. Ed è un messaggio che finalmente rimette al centro dell’agenda italiana non solo la recessione e la disoccupazione, ma anche la nuova Questione Morale che squassa il Paese, da Milano a Reggio Calabria.
Il presidente di Confindustria, due giorni fa, ha parlato di «scatto morale». Puntando il dito contro le stesse imprese che rappresenta, e dicendo «chi corrompe fa male alla propria comunità, fa male al mercato, produce un grave danno alla concorrenza e a i suoi colleghi». Spetta a «noi imprenditori il dovere di difendere la nostra casa dai corrotti che ci danneggiano e di denunciare i corruttori che ci taglieggiano ». Il governatore della Banca d’Italia, ieri, è stato persino più duro. Tra gli interventi di riforma più urgenti non ha ricordato né la spending review né il fisco, ma «quelli che riguardano la tutela della legalità».
Forse mai, nei saloni di Via Nazionale, si era sentita una condanna così netta contro «corruzione, criminalità, evasione fiscale» che, oltre a «minare alla radice la convivenza civile», distorcono il mercato e distruggono lo Stato, accentuano il carico fiscale per chi paga le tasse e bloccano la generazione di nuove occasioni di lavoro. Forse mai, nelle parole di un governatore, si era celebrato un processo così duro al sistema delle imprese e a quello delle banche, sempre più spesso accusate di malaffare proprio nel tanto celebrato «territorio»: Come dimostrano gli scandali Mps e Carige, e come confermano quei 45 casi di «irregolarità di possibile rilievo penale» scoperti dalla Vigilanza, su 340 ispezioni effettuate presso altrettanti istituti di credito.
«Comportamenti inaccettabili», li definisce Visco, che invoca a più riprese «ossequio della legge », «rispetto delle regole e linearità di comportamenti ». Era ora che l’establishment uscisse allo scoperto, e si pronunciasse su un tema così dirimente. Invece di voltare lo sguardo altrove, come ha fatto troppe volte prima, durante e dopo Tangentopoli, e poi nel ventennio berlusconiano, dominato dalla caduta del principio di legalità e dallo Stato d’eccezione permanente. L’Italia di oggi, purtroppo, sconta anche questo: uno spread etico, non solo economico. E da quello non ci salva la Bce di Draghi, ma solo la buona politica.
La Repubblica 31.05.14