Sin dalla notte della larghissima vittoria elettorale Matteo Renzi si è imposto un understatement e un profilo basso che hanno di nuovo spiazzato tutti e così, anche chiacchierando nel suo studio di palazzo Chigi con i corrispondenti di alcuni dei più importanti giornali europei che gli chiedono di una sua possibile leadership Ue, lui si vieta ogni trionfalismo: «Non credo che il senso delle elezioni sia che è nato il leader Matteo Renzi. No, il senso delle elezioni è che l’Italia può giocare un ruolo, che l’Italia non è l’ultima ruota del carro, che l’Italia è un Paese che, se cambia, può diventare lei leader d’Europa». In jeans scoloriti, camicia bianca senza cravatta, Matteo Renzi mantiene il suo tono scanzonato e a Philippe Ridet de «Le Monde» che gli chiede un pronostico sul mondiale di calcio, lui risponde: «Sono troppo amico di Cesare Prandelli e poi dicono che se l’Italia vince i Mondiali c’è un punto in più di Pil…». Ma la Francia lo ha vinto nel ’98 e non è arrivato nulla…». Renzi: «Facciamo così, noi lo vinciamo e poi controlliamo, io mi accontento anche di mezzo punto!».
Presidente, è la terza volta in due anni che questo pool di giornalisti viene qui a palazzo Chigi: prima c’era Monti, poi Letta, ora lei. Pensa che il prossimo anno ne troveremo un altro? Quale è la ricetta per restare?
«Non so se sia un bene o un male, ma credo che per qualche anno non ne vedrete altri! L’Italia ha scelto la stabilità e per noi stabilità significa fare riforme molto dure e molto forti. Possiamo permetterci di dire che vogliamo cambiare l’Europa perché partiamo da noi. Perché da noi, dopo 70 anni, non si è votato per le Province. Perché la riforma elettorale è stata approvata in prima lettura. Perché la riforma della Costituzione è ben incardinata al Senato. Perché la riforma del lavoro, scandita in due parti, è già avviata; perché la riforma della Pubblica amministrazione sarà attuata il 13 giugno; perché la riforma della giustizia sarà presentata entro giugno; perchè il 30 giugno inizierà il processo civile telematico. L’Italia sta profondamente cambiando».
La stabilità consente il cambiamento?
«Sì, anche perché il segnale delle urne non si presta ad equivoci. È la prima volta dal 1958 che un partito prende più del 40 per cento, allora credo fosse al governo Fanfani: 56 anni fa. Più forte di così gli italiani non potevano parlare».
Un voto politico o un atto di fede?
«E’ difficile interpretare i flussi elettorali, a maggior ragione è difficile interpretare le emozioni elettorali. Penso che le due cose stiano assieme. È un atto di fede, basato su un ragionamento politico. C’è un modo tipico di dire, buffo, dei politici italiani che perdono le elezioni: ah, gli italiani non ci hanno capito… Come se fosse colpa degli elettori! Ma rovesciando quel modo di pensare, si potrebbe dire che stavolta sono stati gli italiani ad aver capito noi, più e meglio di quanto non sia stata capace la classe dirigente, i giornalisti, i politici».
Dopo tanti falsi allarmi, stavolta l’Europa sembra davvero al bivio, ripensarsi o rischiare di perdersi. L’altra sera, alla cena di Bruxelles con gli altri capi di Stato e di governo c’era la percezione di questo bivio o sono state espresse preoccupazioni rituali?
«Non so valutare le singole posizioni, io dico che se vogliamo salvare l’Europa, dobbiamo cambiarla. Anche nel nostro Paese, quello con la percentuale più alta di votanti e nel quale si è affermato il principale partito al governo, chi ha votato per il Pd ha comunque chiesto di cambiare l’Europa, non di conservarla come è».
La Stampa 31.05.14