Con le buste paga di maggio è arrivato il bonus fiscale di cui beneficiano circa dieci milioni di lavoratori dipendenti, più i cassintegrati e i disoccupati. Figura come sgravio Irpef automatico, per un ammontare medio di 80 euro al mese.
E NE usufruisce chi ha un reddito annuo lordo che non superi i 26 mila euro. Il varo di questo provvedimento ha segnato una svolta decisiva nel rapporto fra il governo Renzi e il popolo del lavoro dipendente, cioè l’elettorato storico della sinistra. Per la prima volta dall’inizio della lunga recessione economica, un governo si è assunto la responsabilità di effettuare una sia pur parziale ridistribuzione per fronteggiare le ingiustizie sociali rese più acute dalla crisi. Difatti lo sgravio Irpef è stato accompagnato da ulteriori riforme ispirate alla medesima filosofia di perequazione dei redditi: l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie e sugli utili delle banche; il tetto di 240 mila euro agli stipendi dei manager pubblici.
Si è trattato, quindi, di una precisa scelta politica, non a caso operata da un esecutivo guidato dal segretario del Pd; intenzionato a prendere di petto la questione salariale resa ancor più spinosa dalla distorsione di un sistema economico che, nel mentre brucia ricchezza, avvantaggia la rendita
a scapito del lavoro.
Gli avversari del governo, da Grillo a Brunetta, hanno sottovalutato il carattere di sinistra e popolare impresso così al Def 2014. Chi tuttora ironizza sugli 80 euro in busta paga, liquidandoli come mossa elettoralistica o peggio come una “mancia”, rivela con ciò la sua grave ignoranza in materia di redditi da lavoro. Non solo perché l’entità dello sgravio è davvero avvertibile a vantaggio di chi lo percepisce, per quanto sia limitata. Ma soprattutto perché concretizza una spinta a agire in controtendenza, sia pure parziale, rispetto al processo di generalizzata decurtazione dei salari che si sta abbattendo sul lavoro dipendente. Sappiamo che in molti casi lo sgravio Irpef rappresenta solo una compensazione insufficiente rispetto a perdite della più svariata natura già subìte: i redditi da lavoro calano attraverso la diffusione dei contratti di solidarietà, perfino con trattenute non dichiarate, col taglio dei premi di produzione e con la rinuncia alla contrattazione integrativa aziendale. Dunque sono milioni i lavoratori dipendenti che non solo vivono un futuro incerto e un carico fiscale eccessivo, ma per di più guadagnano meno di prima.
Ebbene: la politica se ne è a lungo colpevolmente disinteressata. Quasi che non rientrasse nelle sue prerogative occuparsi di come si distribuiscono, in tempi di scarsità, le risorse disponibili. L’ingannevole senso comune per cui il mercato saprebbe autoregolarsi anche in materia salariale, aveva poi giustificato la sostanziale dichiarazione d’impotenza della politica su questa materia.
Il cambio di rotta avviato con lo sgravio Irpef ha giocato un ruolo determinante nella vittoria elettorale del Pd di domenica scorsa. Non certo perché si trattasse di una “mancia”, come sostenuto dai paladini dell’antipolitica. Talmente spaesati e retrogradi, quando si tratta di affrontare i problemi concreti degli italiani, da sostenere che gli 80 euro sarebbero un tentativo di corruzione dell’elettorato.
Non se n’erano accorti, ma con il bonus fiscale entrato ieri nelle buste paga la sinistra ha ricominciato a fare cose di sinistra. Altro che furbizia. Rastrellando fortunosamente in tutta fretta i 10 miliardi per le coperture necessarie, Renzi si è rivolto a quella che storicamente rimane la base sociale del suo partito nuovo, nel tentativo di ripristinare un rapporto di fiducia fra mondo del lavoro e politica riformista che si era logorato fino a lacerarsi.
Si tratta di una scommessa dall’esito incerto, per la modestia dei fondi disponibili e anche perché negli anni si è aggravata l’impermeabilità della classe dirigente di sinistra alle ragioni del suo mondo di origine. A ricomporre la perduta sintonia non basta un provvedimento in favore dei lavoratori. Ma è indubbio che senza questa prima azione decisa per gli aumenti salariali, il Pd non avrebbe riscosso un consenso così vasto. Due milioni e mezzo di voti in più rispetto alle elezioni politiche 2013 (mentre la lista Tsipras raccoglie solo la metà dei consensi ottenuti un anno fa dalla sinistra
radicale) autorizzano a ipotizzare un’apertura di credito del mondo del lavoro nei confronti del “suo” partito. Altrimenti non si sarebbe oltrepassata la barriera degli undici milioni di voti mentre diminuisce il numero degli elettori.
Certo ha ragione Ilvo Diamanti a segnalare lo sconfinamento del Pd di Renzi a nord-est e l’inedito successo riscosso fra artigiani e piccoli imprenditori, da sempre diffidenti nei confronti della sinistra. È probabile che questi ultimi abbiano apprezzato il decreto-lavoro del ministro Poletti proprio nei punti che dispiacciono ai sindacati, cioè nella sostanziale cronicizzazione dei contratti “a termine”. Ma la vittoria elettorale non sarebbe giunta, almeno in queste proporzioni, se il Pd non avesse contemporaneamente “fatto il pieno” recuperando sulla questione salariale.
Mi auguro che la moderazione esibita ieri da Renzi di fronte agli avversari politici sconfitti, nel non voler stravincere con arroganza, venga riproposta dal segretario del Pd anche nei confronti della Cgil e degli altri corpi sociali intermedi con cui spesso è entrato in rotta di collisione. È infatti chiaro che gli 80 euro in busta paga sono solo un primo, piccolo passo. Attuare una efficace politica di contrasto alla decurtazione salariale, per un’equa ridistribuzione delle risorse disponibili, è tragitto disseminato di ostacoli. Richiede ulteriore coraggio. Ma si è dimostrata anche l’unica via percorribile per recuperare il legame fra popolo di sinistra e partito del lavoro.
La Repubblica 28.05.14
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