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"La Ue e la sindrome del Re di Francia", di Timothy Garton Ash

Il giorno della presa della Bastiglia nel 1789, re Luigi XVI scrisse sul suo diario rien. Pochi leader europei avranno digitato la parola “niente” sui loro iPad ieri.Ma esiste il pericolo che in risposta al grido rivoluzionario risuonato nel continente effettivamente non facciano nulla. Il rien di oggi ha un volto e un nome. Si chiama Juncker. Jean-Claude Juncker.
Sarebbe un disastro se i leader europei rispondessero scegliendo come presidente della Commissione Europea Juncker, lo Spitzenkandidat del maggior gruppo politico del nuovo parlamento europeo, il Partito Popolare Europeo, di centrodestra. L’astuto lussemburghese è stato a capo di un governo nazionale Ue più a lungo di qualsiasi altro nonché presidente dell’Eurogruppo nel periodo peggiore dell’eurocrisi. Benché possieda notevoli doti di politico e sia abile nel concludere accordi incarna però tutto ciò che di infido il voto di protesta, da destra a sinistra, associa alle remote élite europee. Possiamo dire che Juncker è il Luigi XVI dell’Ue.
Il pericolo sta anche nei verosimili sviluppi nel Parlamento europeo. L’evoluzione più probabile è una sorta di grande coalizione implicita dei maggiori gruppi politici, centrodestra, centrosinistra, liberali e (almeno su alcune tematiche) i Verdi, allo scopo di tenere a bada tutti gli anti-partiti. Se altri sei dei partiti più xenofobi e nazionalisti
accetteranno la guida della trionfatrice Marine Le Pen del Fronte Nazionale francese occultando le differenze per dar vita ad un gruppo riconosciuto in seno al parlamento, otterranno finanziamenti (dalle tasche dei contribuenti europei) e una posizione più forte nel processo parlamentare, ma non ancora voti sufficienti a sopraffare una grande coalizione centrista.
Siamo sicuri che sia un bene? Nel breve periodo sì. Ma solo se la grande coalizione poi sosterrà una decisa riforma dell’Unione Europea. Si dovrebbe partire, simbolicamente, da uno stop al consueto pendolarismo tra la spaziosa sede di Bruxelles e quella lussuosa di Strasburgo — la Versailles dell’Ue — al costo stimato di 180 milioni di euro l’anno. Se però la grande coalizione implicita non produrrà risultati più fedeli ai desideri di tanti europei nell’arco dei prossimi cinque anni, non farà che rafforzare il voto anti Ue alla prossima tornata elettorale. Perché dell’insuccesso saranno ritenuti responsabili tutti i partiti tradizionali.
L’unico lato positivo di questo guaio di dimensioni continentali è che per la prima volta dalla elezione diretta del parlamento, nel 1979, nel complesso l’affluenza alle urne non è apparentemente diminuita. Il dato varia in misura notevole da paese a paese — in Slovacchia è stato stimato al 13 per cento ma in Francia, ad esempio, sono andati a
votare molti più elettori rispetto all’ultimo scrutinio. Si è finalmente visto quello che i filo europei predicano da tanto tempo: i cittadini europei attivamente impegnati nel processo democratico europeo. Ma, per somma ironia, lo fanno per votare contro l’Unione.
Qual è il messaggio lanciato dagli europei ai loro leader quindi? Lo ha riassunto in maniera perfetta il disegnatore satirico Chappatte, in una vignetta che rappresenta un gruppo di dimostranti che reggono un cartello con su scritto “Scontenti” — e uno di loro urla col megafono nell’urna elettorale. Gli Stati membri sono 28 ed esistono 28 varianti di scontento. Alcuni dei partiti di protesta vittoriosi sono realmente di estrema destra: in Ungheria, ad esempio, Jobbik ha ottenuto tre seggi e più del 14% dei voti. La maggior parte, come l’Ukip vincente in Gran Bretagna, attingono elettori a destra e a sinistra, puntando su sentimenti nazionalisti e xenofobi, tipo “riprendiamoci il mostro paese” e “troppi stranieri, pochi posti di lavoro”. Ma in Grecia il grosso del voto di protesta è andato a Syriza, partito di sinistra e antiausterity.
Simon Hicks, dall’alto della sua competenza riguardo al Parlamento europeo ha individuato tre principali scuole di scontento: i nordeuropei estranei all’Eurozona (britannici, danesi); i nordeuropei interni all’Eurozona (quei tedeschi che
hanno procurato parecchi seggi al partito anti euro Alternative für Deutschland); gli europei del Sud interni all’Eurozona (greci, portoghesi). Restano fuori gli europei dell’Est, molti dei quali sono scontenti a modo loro. Il fatto che lo scontento giunga al problema da angolazioni diverse rende più arduo affrontarlo. La politica dell’eurozona che sognano gli elettori di Syriza è l’incubo di chi ha votato Alternative für Deutschland.
Ma c’è una cosa che accomuna tutti: la paura per le opportunità dei loro figli. Fino a circa dieci anni fa generalmente si presumeva che per la generazione successiva le cose sarebbero andate meglio. L’“Europa” rientrava in una storia più ampia di progresso. Ma un sondaggio Eurobarometro degli inizi dell’anno ha rivelato che più della metà degli intervistati è convinto che i bambini di oggi avranno maggiori difficoltà nell’Europa di domani rispetto al presente. C’è già una generazione di laureati europei che si sente derubata del futuro che secondo le previsioni li attendeva. Sono gli appartenenti alla nuova classe sociale dei precari.
In un momento così drammatico per l’intero progetto europeo vale la pena di ritornare agli esordi al Congresso d’Europa del 1948, in cui il veterano paladino della Pan-Europa, Richard Coudenhove-Kalergi, così ammonì i cofondatori: «Non dimentichiamoci mai, cari amici, che l’Unione Europea è un mezzo, non un fine». Vale oggi come ieri. L’Unione Europea non è fine a se stessa. È un mezzo al fine di garantire al suo popolo una vita migliore — più prospera, più libera, più sicura.
Ora bisogna quindi concentrarsi fortemente sui risultati. Basta con gli interminabili dibattiti istituzionali. L’interrogativo non è “più o meno Europa?” ma “più o meno cosa?”. Ad esempio, serve più mercato unico nel settore dell’energia, delle telecomunicazioni, di Internet e dei servizi, ma forse meno politica determinata da Bruxelles per la pesca e la cultura. Bisogna assumere qualunque iniziativa produca anche solo un posto di lavoro per un disoccupato europeo. La burocrazia che fa perdere il lavoro va eliminata. Non è il momento di gente come Juncker. È il momento di chiamare in Commissione europea tutti i talenti, sotto la guida di un presidente di provata capacità, come Pascal Lamy o Christine Lagarde, totalmente dedito al compito di convincere le legioni degli scontenti che esiste un futuro migliore per i loro figli e che quel futuro è in Europa.
Ecco cosa dovrebbe accadere. Ma accadrà? Ho la terribile sensazione che in futuro gli storici possano dire delle elezioni del maggio 2014 “furono il campanello d’allarme cui l’Europa non seppe reagire”.
( Traduzione di Emilia Benghi)

La Repubblica 27.05.14