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"La grande occasione", da L'Unità

Nessuno si aspettava un successo del Pd di queste dimensioni. In nessuno dei grandi Paesi europei il responso elettorale è stato così netto. Si dovrà riflettere ancora su quanto è avvenuto (anche perché i sondaggi sbagliano sempre, e sempre di più). Di certo, è un risultato di portata storica. Basti pensare che nessun partito italiano, dopo la Dc nel 1958, ha più superato la soglia del 40% in un’elezione generale. Il Pd è stato percepito – nel pieno di questa crisi sociale, morale, istituzionale – come il «partito della nazione», il solo in grado di difendere le istituzioni dal rischio di un’azione distruttrice e al tempo stesso di guidare il Paese verso il rinnovamento necessario. ̀ certamente merito di Matteo Renzi aver creato un feeling con settori della società che guardavano alla sinistra con diffidenza. Ma ora sulla sua leadership, e sull’intero partito, c’è il carico di una grandissima responsabilità verso il Paese e verso l’Europa.
Suscitare aspettative è un merito di chi fa politica. L’aspettativa contiene dosi di speranza e di fiducia che non hanno solo un valore etico, ma anche economico e di coesione sociale. Però occorre darvi un seguito coerente: altrimenti è solo demagogia. Domenica sono stati i cittadini a voler stipulare un patto con il Pd, proprio mentre Grillo esibiva tutto il suo nichilismo, il suo desiderio di ridurre ogni cosa a macerie. Adesso quel patto va onorato. Con rigore e con apertura. Il voto di domenica – alle europee, ma anche alle regionali di Piemonte e Abruzzo e alle tante elezioni comunali, concluse con un vero e proprio «cappotto» del centrosinistra – ha dato al governo Renzi quella legittimazione piena, che qualcuno ancora contestava dopo il tormentato passaggio di testimone con Enrico Letta. Non ci sono elezioni politiche all’orizzonte. Semmai le elezioni a breve sono il retropensiero di chi vuole intrappolare Renzi. Nei prossimi due anni c’è solo quel patto da rispettare e rafforzare. L’obiettivo è far uscire l’Italia dal pantano, innovare recuperando tanto tempo perduto, riformare per aumentare l’inclusione sociale, non certo per favorire nuove fratture.
Quando nacque il Pd furono Alfredo Reichlin e Pietro Scoppola, due padri fondatori, a parlare di un nuovo «partito della nazione». Un partito che doveva portare il Paese fuori dalla crisi del berlusconismo e rilanciare, su basi nuove, la prospettiva europea. Questo non è avvenuto alla caduta di Berlusconi, anche perché il Pd ha sacrificato se stesso e la propria politica all’altare di una drammatica emergenza finanziaria. Il paradosso è che questo profilo sia emerso con tanta nettezza proprio oggi, di fronte al Grillo che gridava «tanto peggio tanto meglio», che puntava sulla paura e che faceva paura. Ovviamente, tutto ciò non sarebbe stato possibile senza la svolta personale impressa da Renzi, a partire dal rinnovamento generazionale e dalla sua comunicazione politica. Ma il Pd non avrebbe raggiunto quota 40, se nel Paese non fosse scattato un autentico allarme per la prospettiva meramente demolitrice dei Cinque stelle.
Di fronte a quella proposta sfascista, e di fronte a una destra divisa e disarticolata, il Pd è diventata la sola bussola. Lo è diventato anche per aree moderate e per ceti sociali che mai avevano votato a sinistra. Nei picchi storici del Pci, così come nelle prime elezioni del Pd, mai era stato toccato il 37% in Veneto o il 36 in Calabria. Domenica invece il Pd è stato ovunque sopra il 35%. Un partito anche sociologicamente «nazionale». Non più un partito a prevalente trazione delle Regioni rosse. E questo rafforza i termini della sfida, oltre che le responsabilità sulle spalle del Pd.
Fa molto discutere in queste ore il paragone «democristiano». L’idea del Pd come nuova Dc è spesso il pretesto per una polemica di carattere ideologico. È come dire che il Pd ha ormai compiuto una mutazione genetica, una trasformazione di segno moderato e centrista, e per questo è oggi il partito più votato dagli artigiani del Nordest o nelle città del Sud. Ma in questa polemica c’è un pregiudizio che impedisce di cogliere la sfida cruciale per la sinistra e per il Paese. Tutta l’Europa è chiamata a un cambio di paradigma: per questo sono in crisi anche le famiglie politiche più tradizionali e consolidate. Per ragioni storiche, legate alle nostre vicende interne, la sinistra (o se si vuole il centrosinistra) viene chiamata ad assumere un ruolo centrale, di cerniera tra le istituzioni esistenti e l’innovazione inevitabile. La sinistra è la sola possibilità del Paese. E cosa dovrebbe fare? Mettersi all’opposizione di se stessa? Oppure giocare le proprie carte, tentando di rinnovare se stessa, di ricucire gli strappi del Paese e di svolgere consapevolmente un ruolo di guida, come toccò alla Dc nel dopoguerra? Il problema semmai è come svolgere questo ruolo, con quale visione, con quale capacità di aiutare anche i competitori a un cambiamento e a una ricostruzione delle regole comuni. Il dna della sinistra italiana ha impresso i tratti e lo spirito della Costituente. Sono i valori radicali da non rottamare. Non è detto che capiterà ancora alla sinistra un’occasione così grande per servire questo Paese. Non capiterà neppure di avere una forza negoziale come quella che Renzi, dall’alto del suo straordinario risultato, avrà nel consiglio europeo di domani e poi nel semestre di presidenza italiana dell’Ue.

L’Unità 27.05.14