attualità, partito democratico, politica italiana

"Primo in tutto il territorio il Pd ora è partito nazionale", di Ilvo Diamanti

Primo partito in Italia. Alle regionali, ha conquistato il Piemonte e l’Abruzzo. Alle europee, ha quasi doppiato il principale antagonista, ottenendo oltre 5 milioni più del M5s. Anch’esso partito “nazionale”, per distribuzione del voto.
Il PD di Renzi. Un “post-partito” personale. Il PD(R) ha superato la soglia del 40%. Mai raggiunta da un partito di sinistra, neppure nella Prima Repubblica. Fino a ieri, e anche nel 2013, la base elettorale di Centrosinistra era addensata nelle regioni dell’Italia centrale. Nella “zona rossa”, come viene definita ancora oggi. Riflesso della frattura anticomunista che ha segnato il comportamento politico degli italiani. Riproposta, ad arte, da Silvio Berlusconi, per chiudere gli avversari dentro gli antichi steccati. In una condizione di “minoranza”. Ma quell’epoca è finita. E il PD si presenta come un partito nazionale. Il primo in quasi tutte le province italiane. E la sua crescita ha coinvolto non solo le province e le regioni del Centro. Ma, anche e soprattutto, territori ostili alla Sinistra. Come il “mitico” Nordest. Nelle province tradizionalmente più bianche del Veneto (bianco). Treviso, Padova, Verona, infatti, il PD è cresciuto in misura più elevata rispetto alla media nazionale. Perché è riuscito a intercettare il consenso e la fiducia di ceti sociali da sempre lontani e ostili nei confronti della Sinistra. I ceti medi autonomi, i piccoli imprenditori, i liberi professionisti. D’altronde, in un sondaggio di Demetra (per Confartigianato), condotto presso un campione di circa 800 artigiani veneti, nelle settimane precedenti il voto, il 34% degli intervistati annunciava che avrebbe votato per il PD. Un anno fa, un sondaggio condotto sul medesimo campione aveva dato esiti molto diversi. Visto che, allora, il partito più votato dagli artigiani risultava il M5s. Ecco,
questo mutamento dà il segno della svolta a cui abbiamo assistito il 25 maggio. La geografia elettorale del voto di domenica, infatti, mostra come la crescita del PD sia largamente speculare rispetto alle perdite del M5s. In altri termini, buona parte dell’avanzata del PD, rispetto a un anno fa, è avvenuta nelle aree dove il M5s è arretrato maggiormente. Il Nordest, appunto. (Dove ha ripreso fiato la Lega.) Inoltre, molte province “di sinistra”: di Toscana, Umbria e Marche. Alcune province della Sicilia. Il M5s, inoltre, ha perduto dove è cresciuta maggiormente l’astensione. Nel Sud e in Sicilia, anzitutto. Ma anche nel Triveneto (e in particolare, in Friuli-Venezia
Giulia).
Il M5s stesso, comunque, si conferma attore del nuovo bipartitismo italiano. Accanto al PD, che ne costituisce il riferimento dominante. Insieme, i due partiti, oggi, rappresentano quasi i due terzi dei voti (validi). Ma la differenza fra i due, oggi, è che il PD ha quasi il doppio dei voti rispetto al M5s. E ne ha guadagnati oltre due milioni e mezzo, rispetto a un anno fa. Mentre il M5s ne ha perduti quasi tre.
Il risultato del Pd, d’altronde, è stato sicuramente favorito da Grillo e dal M5s. Che hanno concentrato la campagna elettorale “contro” Renzi. In questo modo, hanno trasformato la competizione in un referendum “personale”. Pro o contro Renzi. Pro o contro Grillo. Usando la leva della “sfiducia”, Grillo ha, così, canalizzato verso Renzi la domanda di “fiducia” che, anche se frustrata, è diffusa, nel Paese. Nelle zone e nei settori sociali “produttivi” del Nord. Ma anche nei mondi periferici, battuti dalla crisi
economica. Così, il PD, unico partito rimasto sul territorio, ha potuto avvantaggiarsi della propria presenza organizzata. Ma anche della “fiducia” personale nei confronti di Renzi. Immune dal virus “anticomunista”. Non a caso, un sondaggio di Demos (per il Gazzettino) nello scorso aprile rilevava un grado di fiducia verso Renzi , fra gli elettori del Veneto (già democristiano, poi leghista e infine pentastellato), del 57%. Il più elevato ottenuto da un presidente del consiglio negli ultimi vent’anni. Berlusconi compreso. Berlusconi, appunto. Insieme a FI, appare periferico e quasi marginale. Presente soprattutto in alcune province del Sud. Lontano dalle origini, quando rappresentava la borghesia milanese e lombarda alla conquista di Roma. E se i partiti di Centro-destra, insieme, pesano ancora molto (circa il 30%, come ha osservato Luca Ricolfi), il declino di Berlusconi li rende privi di identità.
Da ciò la differenza e la continuità rispetto alle elezioni dell’anno scorso. Che erano politiche, non va dimenticato. Anche se la campagna elettorale, in queste elezioni europee, è stata giocata, quasi per intero,
su questioni politiche “nazionali”. Dal voto di febbraio di un anno fa erano uscite tre grandi minoranze politiche. Ora, invece, si confrontano una grande maggioranza di governo, il PD di Renzi. E una minoranza di protesta, il M5s. Tutto il resto è sfondo. L’elemento di continuità e di stabilità, invece, è nella discontinuità e nell’instabilità del voto. L’anno scorso, rispetto alle elezioni politiche del 2008, oltre il 40% degli elettori cambiò partito, o meglio, schieramento. Quest’anno non sappiamo ancora di preciso quanti siano i voti “infedeli”. Ma sono un’ampia quota degli elettori. Perché la fedeltà di voto non è più una virtù. E il cambiamento è divenuto regola. Così ogni elezione diventa un’occasione di confronto. Aperto. Dove non è possibile prevedere l’esito. Renzi, per questo, è atteso da un compito duro. Cambiare il Paese per convincere gli elettori. Ora, di certo, ha più forza per provarci.

La Repubblica 27.05.14