La valanga europea non c’è stata. C’è stata una valanga francese, che ha provocato e provocherà vittime e danni in patria ma non sconvolge gli equilibri politici del continente. Insomma, l’estrema destra antieuropea non ha sfondato: all’inquietante 25% raccolto dal Front National di Marine Le Pen non fanno riscontro altre avanzate clamorose. Anzi, a parte i sedicenti «liberali» austriaci della Fpö che guadagnano parecchi voti ma falliscono comunque l’obiettivo di scalzare i grandi partiti, i populisti antieuro, nazionalisti, «sovranisti» (per dirla con un neologismo triste segno dei tempi) che rifiutano per principio ogni cosa che sia sopra la nazione – o la regione – in cui chiudono il loro orizzonte culturale, i movimenti apertamente o potenzialmente xenofobi se non razzisti, sono stati contenuti dappertutto ben al di sotto delle previsioni pessimistiche della vigilia.
Ieri sera, nell’attesa ansiosa dei risultati italiani, c’era ancora da capire quanto avrebbero contato gli alleati che madame Le Pen s’era cercata al di qua delle Alpi: leghisti e «fratelli d’Italia». Bisognerà vedere il risultato definitivo dell’Ukip di Nigel Farage in rapporto ai laburisti, ma si può già dire che l’ambizioso progetto di mettere su al Parlamento europeo un gruppone in grado di inceppare l’integrazione e di far regredire l’Europa verso il passato è fallito. E lo si era cominciato a capire già venerdì, quando s’era visto, dagli exit poll, il flop del suo più stretto alleato, l’olandese Geert Wilders, cui si sarebbe aggiunto ieri sera quello, forse ancor più clamoroso, dei secessionisti belgi. Non a caso la pasionaria francese nelle sue prime dichiarazioni si è dedicata soprattutto agli affari di casa, reclamando il voto anticipato in Francia ma lasciando un po’ cadere lo scenario di un’opposizione multinazionale che, dal basso e dall’interno e manovrando proprio sul terreno delle esecrate istituzioni, assesta il colpo decisivo all’euro. D’altronde, proprio qui era la debolezza della proposta di questa destra antieuropea, nella contraddizione di chiamare la «gente» al voto per un parlamento del quale si negava il diritto stesso all’esistenza. Come dire: mandateci in tanti dove non vale proprio la pena di andare. Ci sono pochi dubbi sul fatto che il successo del Front National abbia poco a che fare con quello che i francesi pensano dell’Europa e molto con quello che pensano del governo e del loro presidente. Il che non è certo una consolazione per François Hollande.
Sull’altra grande posta in gioco del voto europeo, la sfida tra centrosinistra e centrodestra, ieri mentre le urne erano ancora aperte in Italia e affluivano a pezzi e bocconi exit poll di dubbia liceità secondo le norme elettorali in vigore da noi (lo spezzettamento del voto è un effetto collaterale dell’incompiutezza democratica dell’Unione), era ancora del tutto aperta. Da calcoli un po’ azzardati risultava che i popolari avrebbero ottenuto 211 seggi, 64 in meno di quelli che avevano, e i socialisti 193 (meno 1). E comunque mancavano nel conto i risultati dell’Italia. Nel primo c’era da attendersi un inevitabile riequilibrio a favore del centrosinistra e anche nel secondo, non si sa davvero in base a quali calcoli, si accreditava una notevole ripresa dei socialisti sui popolari di Mariano Rajoy. È certo comunque che il sostanziale equilibrio tra i due grandi partiti che dominano il parlamento europeo, pur se appare comunque probabile una crescita del Pse e un calo del Ppe rispetto all’assemblea uscente, condizionerà fortemente le scelte dei prossimi mesi per l’assetto ai vertici dell’Unione. Il candidato alla presidenza della Commissione dei socialisti Martin Schulz e quello dei popolari Jean-Claude Juncker entreranno in un gioco complicato, in cui decisivo sarà il ruolo del parlamento così come ha voluto il Trattato di Lisbona che gli ha conferito il potere di indicare il massimo responsabile dell’esecutivo dell’Unione obbedendo all’indicazione del voto popolare, ma da cui non si asterranno certamente i governi nazionali, cui spetta comunque la titolarità della nomina: segno evidente della incompiutezza democratica in cui vive ancora il progetto europeo.
Da diversi giorni su ciò che si prepara per le settimane e i mesi che verranno fino al rinnovo della Commissione e di tutti gli organismi dirigenti dell’Unione, a novembre, girano voci e illazioni. Una dice che, in caso di sostanziale parità tra i due schieramenti, il Consiglio europeo, cioè i governi, potrebbe tirare uori dalla manica un terzo nome: né Schulz né Juncker, ma una figura su cui mediare un grande accordo tra i paesi più importanti. L’ipotesi appare molto azzardata: la scelta di un terzo nome sarebbe uno schiaffo clamoroso al parlamento appena eletto, una travalicazione che renderebbe ancora più acuto il distacco tra «quelli di Bruxelles» e i cittadini e che non farebbe bene neppure alla popolarità casalinga dei vari governi. Appare ben più realistica un’altra voce che ha corso in queste ore e che i primi risultati di ieri sera inevitabilmente rafforzavano. Schulz e Juncker verrebbero ambedue cooptati ai vertici istituzionali dell’Unione ma in ruoli diversi: presidente della Commissione uno, presidente del Consiglio (posto che si renderà vacante anch’esso a novembre, quando se ne andrà Herman Van Rompuy) l’altro. All’esponente della terza grande componente politica, quella liberaldemocratica, andrebbe la presidenza del parlamento e il candidato naturale sarebbe il belga Guy Verhostadt.
L’Unità 26.05.14