In queste ore milioni di elettori italiani si domandano quali vantaggi ci possa portare l’Europa e se sia il caso di andare a votare per il rinnovo del Parlamento europeo. Si tratta di un interrogativo sbagliato: prima di essere una questione di vantaggi, l’Europa è una questione di identità, l’economia viene dopo.
Dobbiamo esprimere il nostro voto principalmente perché i nostri valori sono più vicini a quelli degli altri europei che a quelli dei russi, degli americani, degli arabi, degli africani e degli asiatici e perché nel mondo globalizzato l’Italia è troppo piccola e troppo debole per stare da sola.
Unicamente dopo questa premessa ha senso considerare i vantaggi economici. Non esiste una dimostrazione semplice delle ragioni per le quali non solo «Europa è bello (o comunque necessario)», nel senso che i valori europei fanno parte del nostro Dna, ma anche «Europa conviene». La storia non si fa con i «se», è difficile pensare a come saremmo oggi senza l’Europa. Veniamo da mezzo secolo di integrazione, con l’Europa ci arrabbiamo (qualche volta a ragione), ma l’Europa è diventata una dimensione della nostra realtà quotidiana. In ogni caso è ragionevole pensare che senza i meccanismi comunitari (dazi doganali uguali all’esterno, libero movimento di persone, merci, capitali all’interno) gli scambi tra Paesi membri sarebbero ridotti e capitale e lavoro sarebbero impiegati in maniera meno produttiva dell’attuale. Avremmo forse maggiore occupazione ma quasi sicuramente minore produzione, dovremmo lavorare di più per stare peggio.
Lo mostrano abbastanza chiaramente due esempi molto distanti tra loro. Primo esempio: in agricoltura saremmo sicuramente più vicini all’obbiettivo di «mangiare ciò che siamo capaci di produrre e produrre ciò che mangiamo», come promette uno slogan elettorale, con il risultato che le nostre mense sarebbero più povere e i prezzi dei cibi più alti. Solo l’unità consente oggi all’Europa azioni incisive a livello mondiale in favore di un futuro alimentare sostenibile in cui ci sia spazio per i prodotti locali. Secondo esempio: avremmo ancora le compagnie aeree «di bandiera» che ci costerebbero moltissimo – come dimostra la crisi dell’Alitalia – i mercati aerei sarebbero privi di concorrenza, con voli ridotti e biglietti aerei molto più cari.
Il confronto tra Europa e non-Europa è bruciante se guardiamo alla vita di tutti i giorni. Lasciamo da parte il fastidio dei controlli dei passaporti e la necessità di cambiare moneta quando si passa una frontiera; con il diploma di un Paese non si potrebbe esercitare la propria professione negli altri Paesi europei, i contributi pensionistici versati all’estero andrebbero probabilmente perduti, non ci sarebbe il programma Erasmus per gli studenti universitari. Le imprese, largamente confinate al mercato interno, avrebbero minori volumi di vendita e quindi i costi di produzione e i prezzi sarebbero più alti. Da ultimo, si dice spesso, purtroppo con ragione, che l’Italia non è un paese per giovani: se fossimo fuori dall’Europa, continuerebbero sempre a comandare le teste grigie.
Molti sostengono che, se l’Europa è una buona cosa, l’euro è una gabbia nella quale avremmo fatto meglio a non entrare e dalla quale occorrerebbe uscire. E si addita l’esempio di Gran Bretagna e Svezia, due economie dai buoni risultati, entrambe dentro l’Europa ma fuori dall’euro. E’ vero che Gran Bretagna e Svezia vanno bene ma non dovremmo dimenticare che gli inglesi sopportarono la durissima «cura Thatcher» nei primi Anni Ottanta, con lo sciopero dei minatori durato un anno e la più recente «cura Cameron», che non è stata certo uno scherzo. Gli svedesi, dal canto loro, nei primi Anni Novanta, sperimentarono la caduta dei redditi e il fallimento di tutte le grandi banche. Svedesi e inglesi ridussero entrambi la spesa pubblica introducendo efficaci riforme nel suo funzionamento, che è quanto sta cercando di fare l’Italia.
Ugualmente non dovremmo dimenticare, e invece rimuoviamo volentieri dalla memoria, che ogni mese seguivamo con trepidazione i dati della bilancia commerciale: se erano negativi – il che succedeva spesso – il cambio della lira scendeva e contribuiva a un’inflazione sovente a due cifre che si portava via il valore dei risparmi. L’euro è stato un gigantesco ombrello che ci ha tolto da questa condizione di emergenza quasi quotidiana. Se non ne abbiamo approfittato rimodernando le industrie, se non abbiamo nemmeno utilizzato i fondi europei ai quali avevamo diritto, se ci siamo cullati nell’illusione che la simpatia nei confronti degli italiani potesse sostituire le esportazioni delle industrie italiane, la colpa è nostra e non dell’ombrello. I più accaniti oppositori dell’Europa, i quali sostengono in maniera truculenta che ne abbiamo abbastanza dell’euro, hanno rimediato alla carenza di argomenti con la violenza verbale, e non solo, ricorrendo a tecniche di chiara reminiscenza fascista.
Certo, l’Europa non va bene così com’è, occorrono cambiamenti profondissimi di cui tutti sono ormai consapevoli. Per questo le attuali elezioni europee sono molto diverse da tutte quelle che le hanno precedute: non si tratta di un semplice rinnovo del Parlamento di Strasburgo bensì dell’inizio di un rinnovamento radicale che rivisiti i motivi di fondo e le basi ideali oltre che economiche dell’Europa, ne modifichi le regole, riduca i poteri della burocrazia di Bruxelles. In queste condizioni, il non votare, o votare contro l’Europa e contro l’euro significa buttar via il bambino insieme all’acqua sporca.
La Stampa 24.05.14