Marco Biagi morì due volte. Del piombo brigatista, alle 20.15 del 19 marzo 2002. E quindi, come ora documentano gli atti e le testimonianze acquisite dalla Procura di Bologna, nelle tre settimane che seguirono, della sapiente opera di “cover up”
della cosiddetta “Relazione Sorge”. Il documento di 57 cartelle commissionato da Claudio Scajola al suo allora capo di gabinetto doveva infatti elidere (come del resto fece) agli occhi dell’opinione pubblica e del Parlamento, ogni circostanza di fatto in grado di documentare la piena consapevolezza dell’allora ministro dell’Interno Claudio Scajola, del suo gabinetto e del vertice del Dipartimento di Pubblica sicurezza del rischio che il giuslavorista correva. Doveva tagliare ogni possibile nesso causale tra il cinismo di chi decise di non raccogliere il grido disperato di “un rompicoglioni” e la sua terribile fine. Per poter così agevolmente scaricare le responsabilità “amministrative” e politiche di quella morte sull’asserita ignavia degli uffici periferici di Polizia di Bologna, Milano e Roma. Quelli che, tra il settembre e l’ottobre del 2001, avevano proceduto alla revoca della scorta.
La Relazione Sorge evitò accuratamente di raccogliere le testimonianze di Luciano Zocchi, ex capo della segreteria di Scajola, Giuseppe Pecoraro (oggi prefetto di Roma e all’epoca capo della segreteria del Dipartimento di Pubblica Sicurezza) e Giuseppe Procaccini (in quei giorni vicecapo del Dipartimento con funzioni di coordinamento amministrativo). Tre testimoni decisivi che, sentiti ora a verbale dal pm Antonello Gustapane, consentono di ricostruire anche un ennesimo, raggelante dettaglio, della catena di eventi che segnò la fine del giuslavorista. Il 18 marzo, ventiquattro ore prima che in via Valdonica, a Bologna, facessero fuoco le pistole brigatiste, l’ultimo terrorizzato grido di allarme per la vita del giuslavorista venne inutilmente depositato nella segreteria del Dipartimento di Pubblica sicurezza.
A ricostruire la sequenza con la Procura di Bologna è il prefetto Giuseppe Pecoraro. È il 18 marzo 2002, appunto, un lunedì. Una data cruciale e di cui il prefetto si dice oggi ragionevolmente certo («È passato molto tempo. Ma sicuramente il 16 e il 17 marzo non ero a Roma e lo stesso il 19. Dunque, era il 18»). Zocchi entra nel suo ufficio di allora capo della segreteria del Dipartimento. «È visibilmente agitato. Direi pure spaventato. Come lo poteva essere un non addetto ai lavori», racconta a verbale. E il motivo, per quanto ha raccontato a verbale lo stesso Zocchi (al pm di Roma Laura Filippi nel luglio del 2013 e quindi al pm di Bologna Antonello Gustapane) è che appena tre giorni prima quanto sta per riferire a Pecoraro sui rischi che corre Marco Biagi, non ha trovato l’ascolto di Scajola. O, meglio, ha trovato la sua irritazione. Dopo aver infatti recapitato al ministro attraverso la sua segretaria Fabiana Santini, due appunti che raccolgono l’allarme di Enrica Giorgetti (moglie di Maurizio Sacconi) e del direttore generale di Confindustria Stefano Parisi, la sera del 15 Zocchi riceve una telefonata da Scajola che gli chiede conto di come faccia a conoscere Parisi.
Pecoraro, dunque, sembra essere la sua ultima spiaggia. An-
che perché a consigliargli di bussare alla sua porta è stato Giuseppe Procaccini, da cui Zocchi è salito quello stesso 15 marzo. («Hai fatto bene a girare quegli appunti al ministro», gli dice. «Vanne a parlare con Pecoraro»). E tuttavia, di quello che accade a questo punto tra i due non c’è un solo dettaglio che collima. Zocchi (che per altro ricorda di aver incontrato Pecoraro il 15 e non il 18), racconta ai pm: «Pecoraro mi disse: “Biagi? Si fa le telefonate da solo”. Non me lo posso dimenticare mai perché me lo sono ricordato il giorno in cui è morto».
Pecoraro la ricostruisce all’opposto: «Non sapevo neanche chi fosse Biagi. Ero arrivato al Dipartimento a gennaio del 2002 e non avevo seguito tutta la vicenda della revoca della scorta. Mi ci volle insomma un po’ per inquadrare la cosa. Zocchi non mi fece vedere nessun appunto e mi parlò genericamente di un allarme raccolto in ambienti confindustriali». Quanto alle considerazioni su Biagi («Si fa le telefonate da solo… «), «Zocchi ricorda male». «Confonde — dice Pecoraro — Perché accade che dopo la morte di Biagi, tornando a parlarne con lui gli dissi che dai tabulati di Biagi non risultavano le telefonate di minaccia che aveva denunciato. Non dissi affatto che si faceva le telefonate da solo». È un fatto che quel colloquio — ancora a dire del prefetto — ha un unico esito. «Telefonai al capo dell’Ucigos Carlo De Stefano chiedendo di attivare una nuova procedura informativa su Biagi».
Ebbene, De Stefano, il 18 marzo 2002, era negli Stati Uniti in delegazione con Scajola e il capo della Polizia De Gennaro e di quella telefonata non conserva alcuna traccia nella sua memoria. Né il 18, né nei giorni precedenti. Dunque? Arrivò davvero quella segnalazione?
La Procura di Bologna cercherà di venire a capo di chi in questa storia ricorda bene e chi ricorda male. Un fatto è certo: nel marzo del 2002, chi decise di non provare neppure a ricostruirla questa storia furono la relazione del prefetto Sorge (scomparso due anni fa) e chi la commissionò: Claudio Scajola.
La Repubblica 24.05.14