L’urlo, l’invettiva, il dileggio, non sono nuovi nella politica italiana. I lazzi e le volgarità di Beppe Grillo affondano le loro radici in un lontano passato, costellato di dannunziane insolenze verso l’avversario, come il “Cagoia” affibbiato dal Vate al capo del governo Francesco Saverio Nitti, o di quarantottesche denigrazioni popolate di trinariciuti e servi sciocchi. Le espressioni grevi e tonitruanti del leader grillino risuonano però anche d’altro, al di là dello scadimento nel cabarettismo da angiporto: portano a galla una storia antica di rabbia e di esclusione. È con questo filo rosso della nostra cultura politica che dobbiamo fare i conti. Grillo è il sintomo di una malattia, di un malessere profondo che è esploso ora, dopo aver scoppiettato qua e là per molti anni. In fondo, se risaliamo ai primi decenni della repubblica, le lotte sindacali e politiche della sinistra esprimevano anche la protesta per un senso atavico di esclusione, una condizione che larghi strati della popolazione sentivano come incombente e ineluttabile. Poi la stagione dei movimenti, a sinistra (‘68 e autunno caldo) e a destra (maggioranza silenziosa), ha dato sfogo alle frustrazioni generate da una società e un sistema politico bloccati. E in seguito è esplosa anche la violenza politica. La società pacificata degli anni Ottanta ci ha illuso. Sembrava che la politica si fosse incanalata lungo i sentieri della tolleranza e del pragmatismo. Addio alle ideologie e all’impegno totalizzante, via libera al Macondo, alla febbre del sabato sera e, per finire, alla Milano da bere. Una stagione di abbagli. Dopo vent’anni di illusionismi berlusconiani, di saghe celtiche e di “rivoluzioni liberali” alle vongole, la grande crisi ha riproposto le antiche diffidenze anti-sistemiche. Con una carica di disperazione e aggressività enormemente accresciuta. Un quarto degli italiani che d’improvviso vota una improbabile lista di neofiti della politica, guidata da un trascinante show-man, attesta quanto fosse — e sia — profondo il malessere nel nostro paese.
Ora, è normale e fisiologico che i nuovi movimenti abbaino alla luna e si popolino di acchiappanuvole. Non è però questo il metro per valutare oggi il M5S. È molto più rilevante individuare il grado di irriducibilità della protesta che esprime. Quanto è spessa e dura la rabbia che i grillini canalizzano nelle istituzioni? E soprattutto, quali rischi esistono che questo sentimento non sfugga di mano e non prenda altre strade, ben più pericolose e violente? Sono queste le domande fondamentali da porsi di fronte al perdurare del fenomeno cinque-stelle. In altre parole, visto che il M5S non si sgonfia, contrariamente a quanto molti sprovveduti avevano pronosticato di fronte agli insuccessi alle varie competizioni amministrative (per i distratti, ricordiamo che Forza Italia alle prime competizioni locali non raggiunse nemmeno
il 10%…), quale impatto sistemico può avere un movimento di protesta di tali dimensioni?
Finora i grillini hanno preferito autoghettizzarsi, ritirarsi sdegnosi sulla montagna rifiutando ogni contatto, considerato di per se stesso inquinante e corruttore: Bersani docet. Questo perché la logica totalizzante — o noi, o loro — non prevede intese di alcun genere con “gli altri”. I guru genovesi vogliono tutto il banco. Anzi, ce l’hanno già, visto che Grillo dichiara nel salotto di Vespa (che si è ricordato, per una volta di essere un giornalista) di avere in tasca già il 96% dei consensi. A questo infantile delirio di onnipotenza va contrapposta la razionalità della politica. Anzi, la sua “normalità”. Non certo per avviare trattative con i parlamentari pentastellati, ma per evitare che il popolo grillino venga rinchiuso dai suoi leader in un recinto. Il malessere di una così larga parte dell’opinione pubblica che va riportata nella politica, non lasciata incancrenire nel ghetto di una opposizione assoluta. Gli elettori grillini costituiscono un magma indistinto, e oscillano tra l’iconoclastia nei confronti del “sistema”, come predicano i loro rappresentanti, e il semplice desiderio-bisogno di una politica concreta, fattiva e pulita. La loro disaffezione verso tutto quello che fin qui ha offerto la politica è comprensibile; e questo sentimento ha trovato sfogo nel grido furioso e distruttivo di Grillo. Spetta ai partiti democratici, e in primis al Pd, riportare questo elettorato ad avere fiducia nella politica. Anche perché, nella nostra storia nazionale, la fuga dalla politica ha preso scorciatoie pericolose.
La Repubblica 22.05.14