A forza di gridare ci sono quasi riusciti: gli euroscettici hanno convinto una parte della popolazione del Continente che l’Unione europea è costosa e opprimente. Gli economisti però da trent’anni sfornano rapporti per cercare di calcolare il «costo della non-Europa» e sulla Ue sono arrivati a conclusioni molto diverse: divisi saremmo molto più poveri. L’ultimo rapporto di questo tipo, che è una rassegna degli studi più recenti ed è stato pubblicato a marzo dal Parlamento europeo, stima che se non si attuassero le misure di integrazione economica in diversi settori, a partire dal mercato unico digitale e dal mercato unico dei consumatori, nel periodo 2014-2019 si perderebbero 800 miliardi di euro, pari all’80% del bilancio complessivo dell’Ue nel periodo 2014-2020.
Si tratta di una stima per difetto, perché è difficile quantificare in cifre il costo politico, sociale, culturale e quindi economico che si pagherebbe a vivere isolati nel proprio bozzolo nazionale in un mondo globalizzato. Però la cifra fa giustizia delle tante accuse rivolte ai cosiddetti euroburocrati, incolpati di essere troppi e troppo pagati, e di passa- re il tempo ad occuparsi della misura corretta dei cetrioli. La verità è che i funzionari delle istituzioni europee sono circa 55mila, quanto l’amministrazione di una città come Parigi, con la differenza che devono amministrare più di 500 milioni di cittadini. Il loro costo rappresenta meno del 6% del totale di bilancio europeo annuo, 142 miliardi di euro nel 2014. A sua volta il bilancio della Ue rappresenta appena l’1% del Prodotto interno lordo dei Paesi europei, che hanno una spesa pubblica media pari al 46% del Pil.
Gli stipendi dei funzionari sono il vero costo della Ue, visto che il resto del bilancio torna agli Stati membri sotto forma di fondi comunitari. Vale la pena di pagarlo? Stando alle cifre dell’ultimo rapporto sui costi della non-Europa mantenere 50mila funzionari a Bruxelles ci costerà ogni anno circa 8,5 miliardi di euro, ma ci frutterà più 133 miliardi.
Il concetto di «costo della non-Euro- pa» nasce all’inizio degli anni Ottanta quando il francese Michel Albert e l’inglese James Ball scrissero un rapporto per il Parlamento europeo cercando di calcolare quanti soldi si sarebbero risparmiati abbattendo alcune delle barriere che separavano i mercati nazionali. È stato però un economista italiano della Commissione europea, Paolo Cecchini, a scrivere il rapporto più conosciuto e citato: il Rapporto Checchini, pubblicato nel 1988. Nello studio si calcolava che il completamento del mercato unico avrebbe portato una crescita del Pil europeo fra il 4,5% e il 6,5%.
La storia poi ha dimostrato che Cecchini non sbagliava e oggi diversi studi britannici indicano che ad arricchirsi con il mercato unico sono stati anche i Paesi più tradizionalmente euroscettici come la Gran Bretagna, dove oggi i conservatori discutono di un ipotetico referendum per uscire dalla Ue. È stato sempre un italiano, l’ex premier Mario Monti, a scrivere nel 2010 un rapporto su incarico della Commissione Ue per descrivere tutti i passi che mancano alla realizzazione di un vero mercato unico. L’anno scorso poi l’Istituto Affari Internazionali e il Centro Studi sul Federalismo hanno pubblicato uno rapporto intitolato «I costi della non-Europa della difesa» in cui si stima che mantenere 28 forze armate separate, con tanti inutili raddoppi e sovrapposizioni di armamenti, ci costa 120 miliardi di euro l’anno in più, senza parlare dei risultati in termini di efficacia. Delle cifre molto più alte di quel- le dei controversi aerei F-35, ma che raramente vengono citate nei dibattiti sull’Europa. Quest’anno sono stati i giovani federalisti Eliana Capretti e Samuele Pii ad aver pubblicato in rete lo studio «I costi della nonEuropa», in cui passano in rassegna gli sprechi attuali e i risparmi che si otterrebbero dalla messa in comune ad esempio dei laboratori di ricerca, delle spese doganali, delle ambasciate e dei sistemi informatici.
Quello del mercato digitale, in particolare, è il caso più emblematico perché è il motore della crescita in ogni parte del mondo e per sua natura non conosce confini. Quando però si vanno a guardare le quote di acquisti online transfrontalieri in Europa si scopre che i cittadini della Ue hanno tutti pro- dotti del mondo a portata di mouse, ma poi comprano quasi sempre da negozi nazionali. Le barriere sono costituite dalla giungla di regole, legislazioni e tassazioni differenti che frammentano l’Europa in 28 mercati digitali diversi. Secondo il rapporto del Parla- mento europeo abbattere queste barriere porterebbe ad una crescita del Pil del 4%, pari a 520 miliardi di euro. An- che se vista la complessità del lavoro la Ue dovrebbe realisticamente riuscire ad ottenere in questo modo 260 miliardi di euro entro il 2019. Per quella data poi altri 235 miliardi di euro potrebbero essere ricavati dalla realizzazione del mercato unico dei consumatori, cioè dall’armonizzazione di regole, controlli e protezioni che permettono di vendere ed acquistare beni in tutta Europa.
L’Unità 22.05.14