Il dato sulla crescita del Pil italiano nel primo trimestre 2014 è arrivato come una doccia fredda sulle speranze di ripresa, alimentate nei mesi scorsi dall’inversione del ciclo in Europa e dal clima di fiducia portato dall’attivismo del nuovo governo. Quel – 0,1%, una sostanziale crescita zero per l’Italia, deve farci riflettere, ma dobbiamo anche evitare di trarne conclusioni sbagliate. La prima considerazione da fare è che ancora non ne siamo fuori. Va sottolineato a questo riguardo che il dato dell’Italia non è isolato. È vero che ancora una volta facciamo peggio degli altri, ma l’eurozona, con una crescita dello 0,2%, se la passa solo marginalmente meglio di noi. Anche i dati della Germania (+ 0,8%) e della Spagna (+ 0,4%), vanno correttamente compresi. Sarebbe ad esempio un errore concludere che, siccome la Germania va bene, il problema della bassa crescita è un problema nazionale e non europeo. Il problema resta quello più volte denunciato: l’attuale sistema europeo di governo dell’economia non è attrezzato ad affrontare quello che in gergo viene definito uno «shock asimmetrico»; a fronte di sollecitazioni esterne come la crisi finanzia- ria o la concorrenza dai paesi emergenti, manca qualsiasi meccanismo di correzione degli squilibri determinatisi per la diversità istituzionale e di specializzazione produttiva dei di- versi Paesi.
Nella visione dominante presso le istituzioni europee, tale correzione dovrebbe avvenire attraverso variazioni nei prezzi e nei salari, quindi per l’Italia attraverso una riduzione dei salari reali. Viene citato l’esempio della Spagna, che sta recuperando più rapidamente di noi il divario di competitività con i Paesi dell’area tedesca. Purtroppo, questo risultato, come quello più incoraggiante del nostro sul- la crescita, viene raggiunto al prezzo di una disoccupazione al 26% (doppia rispetto a quel- la italiana). Non dobbiamo inoltre dimentica- re che il deficit spagnolo nel 2013 è stato pari al 7,1%, contro il 3% italiano: se l’Italia avesse avuto a disposizione spazi fiscali nell’ordine del 4% non sarebbe stato difficile replicare o superare la performance spagnola.
Il dato deludente sulla crescita ci dice inoltre che, a meno di sorprese, è difficile che possano essere centrati gli obiettivi di crescita in- dicati nel Def. Questo significa che presto il governo Renzi si troverà a dover decidere se continuare sulla linea di rispetto rigido degli obiettivi di bilancio o chiedere con forza all’Europa un vero “cambio di verso”.In che direzione? Nell’immediato occorrerebbe utilizzare in modo più deciso le leve del- la politica monetaria e la politica fiscale. Una politica monetaria più marcatamente espansi- va aiuterebbe a restituire liquidità alle imprese, ad alzare il tasso di inflazione medio nell’eurozona così da favorire il riassorbimento degli squilibri e da aiutare la sostenibilità dei debiti; a determinare infine un deprezza- mento dell’euro rispetto alle altre valute per incoraggiare l’export. Mario Draghi ha annunciato prossimi interventi di segno espansivo, ma la sua azione è frenata dalle resistenze tedesche.
Sul fronte della politica fiscale si tratta di recuperare spazi di manovra. Il provvedimento degli 80 euro è una boccata d’ossigeno per una specifica categoria, i lavoratori dipendenti, ma se coperto da riduzioni di spesa rischia di avere effetti limitati o addirittura nulli sulla domanda interna. Occorre liberare risorse per gli investimenti, introducendo la golden rule sia nelle regole europee che in Costituzione.
C’è poi la questione del debito. Una crescita debole ne mette in dubbio la sostenibilità, e in questa situazione basta poco a modificare le aspettative sui mercati finanziari e determinare una nuova impennata degli spread. Proprio a fronte dell’insostenibilità del sentiero individuato dal fiscal compact, un’economista non certo radicale come Lucrezia Reichlin ha parlato esplicitamente di ristrutturazione del debito pubblico: un’ipotesi che in molti considerano estrema e che tuttavia (pur con tutte le prudenze che comporta affrontare un argomento che potrebbe destabilizzare i mercati finanziari) non può essere così sbrigativamente esclusa.
Se questo è il quadro, è sorprendente quanto il dibattito di questa campagna elettorale sia dominato da temi nazionali e trascuri le grandi scelte che ha di fronte l’Europa. Cosa possiamo attenderci dal risultato di domenica? Un’affermazione del Pd e dei partiti della famiglia socialista metterebbe Martin Schulz nella condizione di chiedere il posto chiave di presidente della Commissione. Un risultato importante, ma la fatica maggiore per l’Italia sarà convincere i partner europei, a cominciare proprio dai rappresentanti socialisti, della necessità di un cambio di rotta, nell’interesse di tutti. Purtroppo, da questo punto di vista, non aiuta l’illusione, diffusa anche nel nostro Paese, che per uscire dalla crisi basti qualche riforma strutturale e fare i “compiti a casa”.
L’Unità 20.05.14