Il consuntivo dice «ultimi in Europa», e gli obiettivi ufficiali comunicati dall’Italia a Bruxelles nell’ambito della «strategia Europa 2020» lo confermano: ultimi siamo e ultimi resteremo, almeno fino al 2020.
Tanta coerenza riguarda il tasso di laureati nella popolazione fra 30 e 34 anni di età. L’indicatore è piuttosto trascurato nel dibattito pubblico di casa nostra ma è centrale nei documenti europei, perché ancor più dei titoli di studio nella popolazione complessiva misura il «capitale umano» più importante per il presente e il futuro di un Paese.
I numeri sono tutti scritti in documenti ufficiali – li ha spulciati per primo Roars.it, blog animato da un’associazione di docenti presieduta da Francesco Sylos Labini (si veda anche Il Sole 24 Ore del 16 aprile) – e sono parecchio efficaci nel raccontare una delle cause della crisi italiana. Il fenomeno non è nuovo, perché già nel 2009 superavamo in graduatoria solo Slovacchia, Repubblica Ceca, Romania e Macedonia, ma negli ultimi anni si è aggravato: mentre l’Italia procedeva con i ritmi “tranquilli” del passato, portando al 22,8% la quota di laureati nella popolazione fra 30 e 34 anni, gli altri Paesi correvano di più: la Repubblica Ceca, con un balzo del 9,2% in quattro anni, si è portata al 26,7%, ma anche la Romania (dove il Pil pro capite è meno di un quarto del nostro) e la Macedonia, caratterizzata da una ricchezza per abitante pari al 58% di quella rumena, hanno fatto meglio. La media europea, che conta 36,8 laureati ogni 100 giovani 30-34enni, è lontana, così come i dati registrati nei Paesi che più di Macedonia e Romania dovrebbero rappresentare i “concorrenti” diretti dell’Italia: la Germania si attesta al 33,1%, la Francia è al 44% e il Regno Unito vola al 47,6 per cento.
Fin qui il presente. Ma a evidenziare la scarsa ambizione della politica italiana sulla questione strategica della conoscenza sono soprattutto gli obiettivi ufficiali che negli anni scorsi abbiamo comunicato alla Commissione europea nell’ambito del progetto 2020. Il target continentale chiede di arrivare nei prossimi sei anni almeno al 40% di laureati, dato in effetti non lontanissimo dal 36,8% raggiunto nel 2013, ma noi ci accontentiamo di molto meno. Se rispetterà il proprio programma, l’Italia arriverà infatti al 27%, una percentuale che la abbona all’ultimo posto nel continente almeno fino al 2020: quando in Francia, stando agli obiettivi ufficiali, sarà laureato un giovane su due, e in Irlanda si arriverà al 60 per cento.
La modestia degli obiettivi italiani, del resto, è coerente con le performance di un sistema universitario che non accelera (i laureati 2012, ultimo dato disponibile nelle banche dati Miur, sono stati 295.699, lo 0,2% in più di quelli del 2008), e anzi pare tempestato dai segni «meno» in molti indicatori. Il fondo di finanziamento ordinario, cioè il cuore della spesa statale per l’università, ha perso dal 2008 a oggi 706 milioni, cioè il 9,73% del totale, mentre le stime parlano di un dimezzamento degli professori ordinari e di un taglio del 27% degli associati da qui al 2018. Con questi numeri, il consiglio universitario nazionale (Cun) ha lanciato l’allarme sul «collasso strutturale» delle università, mentre la Conferenza dei rettori si è appena lamentata per la pioggia di adempimenti burocratici «in arrivo da più parti». La carta, insomma, pare l’unica cosa che oggi abbonda nell’università italiana.
Pubblicato il 19 Maggio 2014