Il preludio è già sopra Fiume. Ammassi di betulle storte, schiantate dalla tempesta di febbraio — gelo e bora — come asticelle del gioco chiamato “Sciangai”. Montagne russe per piccoli canyon, fra montagne storte, sotto un cielo inchiostro con accenni di nevischio. Gli evacuati di Obrenovac (Serbia) ospitati in un palazzetto dello sport
A Delnice , ancora boschi stremati, persino tralicci piegati dal gelicidio. È lo stesso posto dove vent’anni fa vedevi i primi segni di guerra, le case dinamitate o sforacchiate dai kalashnikov. E poi via, oltre una cordigliera desertica, dove penetrarono le avanguardie del Turco, e dove la Bosnia col suo labirinto di acque spinge come un cuneo verso la valle della Kupa, ultimo fiume delle Alpi.
Lassù sembra che Mediterraneo e Centro Europa si diano battaglia a colpi di vento. Oltre, pensi, andrà meglio. E invece no. Dopo Gradiska, quando la Sava sembra raddoppiare di portata per l’immissione dei primi affluenti di destra — l’Una e il Vrbas — proprio lì le prime colline di Bosnia sono inghiottite da uno strato di nubi grasse color topo. L’aria è ferma, in bilico fra i monti e la Pannonia. Ma il peggio arriva col fiume Bosna, lo stesso che sfiora Sarajevo. Fra Derventa, Modrica e Doboj il traffico si interrompe, i ponti sulle montagne son venuti giù, la precedenza è tutta per i mezzi di soccorso.
Ora esce il sole, il paesaggio luccica di rivoli, mostra plasticamente la dimensione della catastrofe. Maglaj è sotto quattro metri d’acqua. A Doboj si parla di settanta vittime e di numerosi dispersi. A Srebrenica, fa sapere Azra Ibrahimovic, si arriva solo per la strada alta delle miniere; Bratunac e Potocari sono isolate. Travnik, la città di Ivo Andric, è andata sotto, e così anche Prijedor e Zenica. Fra Modrica e Zepce il fiume si è mangiato 200 metri di ferrovia e chilometri di asfalto stradale. Ma il peggio è il seminato perduto: granturco spazzato via, alberi di prugne e ciliegie che hanno perso i frutti. Dopo l’alluvione, la paura della carestia.
C’è una colonna croata che sale da Slavosnski Brod, la catena della solidarietà è partita alla grande, anche fra ex nemici, sulle stesse strade della pulizia etnica. Serbi, croati, musulmani, cartelli in cirillico, in alfabeto latino, ora nessuno guarda la differenza. E’ saltato tutto, l’emergenza ridicolizza le spartizioni di Dayton. «Dite che mandino aiuti
dall’Italia, ma non al governo che si mangerebbe tutto. Portate direttamente a noi. Cibo, vestiario, materassi, coperte, badili».
Ma italiani non si vedono, gli aiuti governativi sono a quota zero. Dalla Serbia, dove il disastro prosegue oltre la frontiera della Drina, arriva notizia di colonne slovene, ungheresi e anche russe. Mosca è già al lavoro con squadre a Obrenovac, cuore del disastro a Sudovest di Belgrado. Annunciano aiuti gli Emirati. Manca solo l’Europa. La gente non la vede, in Serbia come a Sarajevo. All’Unione, ti fanno capire, i Balcani interessano per i giochi della geopolitica, e chi se ne frega se «stavolta è quasi peggio della guerra», se i fiumi si portano via villaggi e fabbriche, se “le colline si muovono” e sommergono quel poco che due Paesi in ginocchio sono riusciti a ricostruire.
Alcune strade si stanno già riaprendo, ma il rischio è sulle montagne dove i campi minati ancora non bonificati smottano in alcuni punti. Una situazione afgana. Il territorio abraso dall’incuria e dalla guerra è diventato un acceleratore di piene, e così non tanto i grandi fiumi, ma i piccoli “potok” si trasformano in killer, centuplicano la portata in poche ore. A Dobrinja, periferia di Sarajevo, un rigagnolo ha trascinato via un uomo. A Modrica e a Zvornik c’è chi ha visto corpi portati dalla Drina come nei giorni della pulizia etnica, quando le bande trasformarono i ponti in scannatoi.
La gente si è ritirata sui piani alti o sui tetti, e aspetta soccorso. Vecchi, adulti e bambini dormono all’aperto, sulle colline. Per via degli ospedali tagliati fuori molte donne hanno partorito in casa o in ambulatorio. Le facce. Indescrivibili. Molto oltre la rassegnazione.
Ti guardano per dire: che può succederci di peggio? Cosa ancora, dopo gli scannamenti, il silenzio dell’Occidente, il genocidio impunito, la criminalità al governo e una grande alluvione? Eppure non c’è fatalismo. Nessuno aspetta la protezione civile, come da noi. Qui sono vent’anni che non c’è. Quelli che possono, sono a spalare. E sarebbero tanti di più, se li si rifornisse di stivali di gomma. Stivali che, ovviamente, non ci sono.
Capacità di scherzare, anche col fango alle cintola: «Va male, malissimo. Ma intanto facciamoci un cicchetto». Frase già sentita, vent’anni fa, a Sarajevo assediata. Quattro giorni fa, quando la Miljacka si è improvvisamente gonfiata nella capitale, qualcuno aveva sparato l’immagine dell’onda con sopra, in fotoshop, un surfista. “Grazie Tito”, ghigna Emina Bruha Brkovic, alludendo alla diga di Lukavac piena fino all’orlo. Il senso è: meno male che fu Tito a farla costruire. Se l’avessero appaltata quelli di oggi, sarebbe già venuta giù.
La note stonate, come sempre, dalla politica. «Sabac non deve cadere» proclamano i giornali serbi, gonfi di Dio-Patria-Famiglia. E fanno il verso alla Grande Guerra, quando proprio Sabac, sulla Sava, fu nucleo della resistenza contro l’austro-ungarico invasore. «Mobilitazione generale!», volano parole così. Ma funzionano: in diecimila hanno accumulato sacchi di sabbia attorno alla città, e ora il top della piena è passato, scende su Belgrado. E intanto partono appelli al mondo: “È una delle peggiori emergenze climatiche del secolo. Gli sfollati fra Bosnia e Serbia solo almeno settantamila».
La Drina dalle parti di Bijeljina è inavvicinabile: la confluenza con la Sava è diventata un lago dove solo le cicogne sembrano a loro agio. Ci sono già stato un mese fa, sul fiume cantato da Ivo Andric attraverso la storia di un ponte. Le colline a Sud di Loznica, specialmente, mi sono parse un piccolo Eden. Sterminati frutteti, le prugne più buone del mondo, cespugli di more e mirtilli e, ai crocicchi, piccoli chioschi “turchi” profumati di grigliata. Ma soprattutto acqua, un reticolo luccicante di acqua benedetta tra i boschi, villaggi e mille piccoli ponti. Nessuno avrebbe detto, un mese fa, che quei rigagnoli avrebbero mosso le montagne.
La Repubblica 19.05.14