C’È una posta in gioco altissima, che non si può e non si deve perdere di vista, in quella che viene volgarmente e strumentalmente liquidata come la “faida” interna alla Procura di Milano. Il pg di Cassazione Ciani farà le sue verifiche. Le due commissioni del Csm interessate al caso stenderanno martedì le relazioni da trasmettere al plenum per il giudizio finale. Ma intanto, dietro lo scambio di accuse tra il sostituto Alfredo Robledo e il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati si nasconde solo incidentalmente un conflitto “gerarchico”, che chiama in causa due diverse visioni su come si assegnano i fascicoli nel più importante ufficio inquirente del Paese dai tempi di Tangentopoli in poi. Un ufficio che ha sciolto il colossale grumo di malaffare costruito intorno al Caf, ha gestito le inchieste più scottanti sulla micidiale macchina corruttiva berlusconiana, e oggi ha riacceso i riflettori sul gigantesco e mai dismesso mazzettificio di quelli che un tempo rubavano “per” il partito, e oggi rubano “al” partito.
UN UFFICIO che è storicamente un avamposto della legalità: capace comunque, con tutti i suoi limiti, di illuminare la “zona grigia” in cui i poteri pubblici e privati si confondono, spartendosi tangenti ed appalti.
Dunque, chi più o meno consapevolmente sfrutta lo scontro tra il procuratore capo e il suo sostituto per gettare i “soliti sospetti” sulla Procura di Milano, rappresentandola agli occhi di un’opinione pubblica già smarrita come un “covo” di vipere e un coacervo di correnti, sta compiendo un’operazione politica molto precisa. Non conta più stabilire chi ha ragione, tra Robledo e Bruti Liberati. Conta solo denunciare la “piaga”, e infiammarla ogni giorno con il fuoco mediatico e politico. Negare che quello ambrosiano, oltre che un “rito”, sia anche un “mito”. Dimostrare che anche quella magistratura, che ha sempre rappresentato un’élite non soltanto giudiziaria, non è affatto diversa dal resto del Paese. Vive delle stesse ambiguità, degli stessi vizi e delle stesse miserie. Altro che autonomia, altro che indipendenza. Se si può insinuare anche solo il dubbio che il capo di quella Procura distribuisca le inchieste secondo l’appartenenza dei suoi sostituti a Magistratura democratica, allora l’operazione è compiuta. Quella Procura non è più credibile. E insieme a quella Procura, si delegittima l’intera giurisdizione. Si giustifica l’urgenza di una “riforma della giustizia” che non favorisca i cittadini, ma che punisca i magistrati.
Questa è la vera posta in gioco. Incrocia scadenze tecniche (il 6/7 luglio si elegge il nuovo Csm dove cresce il peso della corrente di destra di Magistratura Indipendente, e scade il primo mandato di Bruti Liberati) e urgenze politiche (l’agenda riformista di Renzi è tuttora sostenuta da Berlusconi, secondo il “patto del Nazareno” di febbraio). Con quali effetti pratici sulla giurisdizione, nessuno lo ha ancora capito.
L’ATTACCO DI ROBLEDO
Tra i 90 sostituti guidati da Bruti Liberati, Alfredo Robledo è un magistrato moderato, vicino a Magistratura Indipendente. Nella sua audizione al Csm del 13 aprile, contesta “la cultura della gestione delle funzioni del procuratore… nel senso che Minale è
sempre stata una persona che insieme ai precedenti procuratori, cioè sia con Borrelli che con D’Ambrosio, ci ha sempre garantito… Con l’avvento di Bruti questo clima è cambiato, perché è cambiata la concezione…”. Il sostituto cita una riunione del marzo 2012 in cui Bruti “si dichiarava disponibile ad assegnarmi comunque in futuro fascicoli dei reati di corruzione su cui avessi manifestato interesse… Gli dissi che io non ero affatto d’accordo con questa suddivisione e con questa sorta di dispensa quasi feudale: vuoi un processo? Te lo do. Io non ho mai ragionato così in trentasei anni di magistratura… La cosa che mi lasciava stupito era questa sorta di coesistenza, questo mischiarsi incredibile tra funzioni giudiziarie e forza correntizia… Questa impostazione era intollerabile per me…”.
Da questa incompatibilità strutturale, Robledo fa discendere i dissensi di merito. Dal presunto ritardo nell’iscrizione nel registro degli indagati di Roberto Formigoni nel luglio 2011, per l’inchiesta su Daccò e sul San Raffaele, all’analogo scontro sul forzista ex presidente della Provincia di Milano Guido Podestà per le false firme nelle liste alle elezioni del 2010 (Robledo vuole iscriverlo subito nel registro degli indagati, e invece Bruti obietta “no, tu lo iscrivi soltanto quando te lo dico io”). Fino ad arrivare ai dossier più recenti: dall’inchiesta Ruby (che Robledo chiede per sé, contestando l’assegnazione a Ilda Boccassini) a quella sull’Expo (nel quale Robledo si considera escluso dalle indagini, e cerca di reinserirsi con iniziative autonome.
Robledo lamenta metodo e merito, denunciando esclusioni e arbitri da parte del procuratore capo. In questa offensiva, trova sponde all’interno della Procura. Ferdinando Pomarici (già concorrente di Bruti alla guida della Procura, sconfitto 4 anni fa) e
Manlio Minale.
LA DIFESA DI BRUTI LIBERATI
L’arringa di Bruti Liberati è affidata a una prima relazione di 7 cartelle, trasmessa al Csm il 12 maggio. Il procuratore capo smonta punto per punto le contestazioni. A partire da quella sull’Expo. “Sin dalla primavera del 2012 — scrive — è stato attuato, in scrupolosa osservanza delle regole dettate dai vigenti ‘Criteri organizzativi’, il coordinamento” tra Dda (Direzione distrettuale antimafia, guidata dalla Boccassini) e II Dipartimento (quello guidato da Robledo, appunto). Lo stesso Robledo, “a seguito della coassegnazione del sostituto D’Alessio, del suo dipartimento, ha avuto immediata cognizione che il filone di indagine che si prospettava nasceva nell’ambito di un procedimento Dda per reati Dda ed ha avuto piena disponibilità di tutto il fascicolo e costante informazione sullo sviluppo delle indagini… La successiva prospettazione avanzatami dal procuratore aggiunto Robledo di stralcio del filone di indagine relativo ad Expo… non solo avrebbe fatto perdere la unitarietà di visione di questa vicenda specifica, ma avrebbe comportato un sicuro intralcio e ritardo alle indagini…”. E di questo “intralcio e ritardo alle indagini” è prova il famigerato “doppio pedinamento” che, come testimoniato dalla Boccassini nell’audizione al Csm di giovedì, “purtroppo è avvenuto, e a misure cautelari già chieste”.
Ma Bruti Liberati non si ferma qui. Sull’inchiesta Formigoni scrive: Robledo “senza alcuna interlocuzione né con il sottoscritto Procuratore né con il procuratore aggiunto Greco coordinatore del I Dipartimento, né con i sostituti assegnatari del fascicolo, ha preso visione, estratto copia e trasmesso a codesto Csm atti di un procedimento di cui non era assegnatario…”. Con le polemiche sollevate sui ritardi nell’iscrizione di Formigoni tra gli indagati, avrebbe anche offerto argomenti pretestuosi al Celeste, “come risulta dal verbale di udienza 6 maggio 2014”, dove uno dei suoi difensori ha affermato: “Non capisco cosa c’entrano i soldi del san Raffaele, perché tra l’altro da lì nasce il processo, come abbiamo visto, che pare addirittura… non pare, è agli atti, ci sono interrogatori fatti un anno prima in cui Formigoni risultava già accusato e non viene iscritto per un anno intero, altra pagina non encomiabile’…”. Infine Bruti Liberati obietta che la denuncia civile per diffamazione, promossa da Robledo nei confronti dell’ex governatore della Lombardia il 12 gennaio 2011, “non mi era stata segnalata nel luglio 2011, quando egli riteneva di dover iscrivere l’onorevole Formigoni”.
La stessa “omissione” che, come ha scritto Piero Colaprico ieri su questo giornale, rende inammissibile la pretesa di Robledo di gestire l’inchiesta su Ruby. Anche qui pende una causa civile per danni che lo stesso procuratore aggiunto ha promosso contro Berlusconi a Brescia (anche in questo caso, senza informare Bruti Liberati), e che gli avrebbe precluso comunque di indagare sul Cavaliere “al posto” della Boccassini. D’altra parte, se fosse vero che affidando a lei l’inchiesta sul Rubygate Bruti Liberati avrebbe violato le regole, questa sarebbe stata un’arma che i difensori del Cavaliere non avrebbero esitato ad usare. Lo ha confessato lo stesso Niccolò Ghedini, con una battuta ironica, in una telefonata fatta in Procura mercoledì: “Ah, l’avessimo saputo prima! Avremmo chiesto la nullità del processo…”.
Il Procuratore capo chiede ora al Csm “una sollecita definizione della vicenda”. Spera così che la Procura di Milano possa tornare a “svolgere il suo difficile compito in un clima di ‘normalità’ …”. Al suo fianco ci sono le toghe storiche, del peso della stessa Boccassini e di Francesco Greco, oltre ai Forno, i Romanelli, i Nobili.
LA DESTRA IN AZIONE
Nessuno può escludere che Robledo si sia mosso per motivazioni personali. Ma è un fatto che, da quando il caso è esploso, la politica abbia iniziato ad azionare la vecchia, cara macchina del fango. E’ un fatto che, a sostenere nel Csm le accuse di Robledo e a voler tenere aperta la “pratica”, sia la squadra di Magistratura Indipendente guidata da Antonello Racanelli (è stato proprio lui, mercoledì scorso, a sollecitare un’ispezione ministeriale a Milano, iniziativa senza precedenti nella storia del Consiglio). Ed è un fatto che a orientare le mosse delle toghe di Magistratura Indipendente sia Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia in quota Forza Italia. Già due volte leader della stessa Magistratura Indipendente, coinvolto in Calciopoli e nelle intercettazioni sulla P3 e sulla connection Berlusconi-Agcom per bloccare una puntata di “Annozero”, Ferri si finge un “tecnico” senza esserlo. E’ amico fraterno di Denis Verdini. Ha un fratello nel consiglio regionale Pdl in Toscana (Jacopo), e un altro fratello nella security del Milan (Filippo). Su di lui, nel primo CdM dell’era renziana, il 28 febbraio
scorso, si è scatenato un braccio di ferro. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando non lo voleva sottosegretario, il premier lo ha voluto a tutti i costi. La sua prima uscita da sottosegretario era già un programma: «La mia nomina è un segnale importante che la politica lancia alla magistratura:
inizia una stagione nuova… «. Risultato: oggi Ferri ispira la “campagna” anti-Procura.
I giornali della destra si muovono di conseguenza. Si tratta di esaltare “il caos a Milano”, i “veleni tra toghe” (Libero). Si tratta di far rimbalzare “Quelle balle in Procura che il Csm vuole insabbiare” (Il Giornale). Si tratta, infine, di macchiare una Procura che “da anni si arroga una gestione delle inchieste costruita sulla finzione giuridica dell’obbligatorietà dell’azione penale” (Il Foglio). E dunque, ancora una volta, quello che conta è manipolare la realtà, dimostrando che le inchieste fatte e le sentenze già emesse sono un “golpe rosso”, e che quelle appena aperte “non stanno in piedi”. A Milano come a Napoli o a Reggio Calabria.
La Procura di Milano non è l’Eden. Ma in questi anni ha portato fino in fondo le più grandi inchieste italiane, come quelle su Berlusconi e i diritti tv Mediaset (la condanna è già definitiva), sulla ‘ndrangheta (dopo 4 anni i procedimenti sono in Cassazione), sul San Raffaele e Daccò (le condanne per bancarotta sono già definitive), sulla sanità di Formigoni (il Celeste va a giudizio dopo solo tre anni di inchiesta). Una riforma della giustizia è necessaria, purchè acceleri i processi e non freni chi li deve istruire. Per questo la Procura ambrosiana non può diventare il pretesto per un regolamento di conti non tra persone, ma tra istituzioni. Lo ha detto il vicepresidente del Csm: “Mi auguro che si giunga a una conclusione rapidissima”. Michele Vietti si è mosso dopo un colloquio con il presidente della Repubblica Napolitano, che i suoi consiglieri descrivono “molto preoccupato per gli effetti di questa nuova strategia di delegittimazione dell’intera magistratura”. Forse c’è ancora tempo per fermarla. Purchè gli italiani sappiano che di questo si tratta. Cioè, ancora una volta, di una questione cruciale chiamata democrazia.
La Repubblica 18.05.14