Le elezioni europee sono sempre state elezioni un po’ particolari. Queste lo sono ancora di più. La gente le sente come meno importanti di quelle nazionali. Si vota per un parlamento distante di cui si sa poco o niente. La posta in gioco è minore e si va meno a votare. A partire dal 1979 l’affluenza è sempre calata. Alle ultime elezioni del 2009 è stata il 43%, ma con rilevanti variazioni territoriali. Escludendo i paesi con voto obbligatorio (Belgio e Lussemburgo) si va dal massimo di Malta (79%) al minimo della Slovacchia (20%). L’Italia è sempre stata uno dei paesi in cui si è votato di più, il 65,1% nel 2009. Ma il calo, a partire dal 1979, è stato costante anche da noi.
La differenza tra quanto si vota alle politiche e quanto si vota alle europee è un altro dato che coglie bene il relativo disinteresse dei cittadini europei verso la competizione per il Parlamento di Strasburgo. Anche in questo caso gli andamenti sono molto diversi territorialmente. Mettendo a confronto l’affluenza alle europee del 2009 con quella alle ultime politiche nei vari paesi (e sempre escludendo i paesi con voto obbligatorio) si va da una differenza minima di 6 punti in Lettonia a una massima di 39 punti in Svezia e Slovacchia. Tutto sommato – fino ad oggi – la differenza in Italia è stata modesta: 10 punti percentuali. In Germania è stata di 28 punti.
Questo è il quadro storico della partecipazione al voto. Il 25 maggio sarà la stessa cosa? Due le novità che possono fare la differenza. La prima è legata alla norma del Trattato di Lisbona che parla di un presidente della commissione nominato dal parlamento europeo su proposta del consiglio «tenuto conto del risultato delle elezioni europee». Grazie a un’interpretazione estensiva i partiti europei hanno nominato dei propri candidati alla presidenza della commissione. Così, per la prima volta i cittadini voteranno non solo per i propri rappresentanti nel Parlamento di Strasburgo ma anche per un candidato alla presidenza dell’esecutivo di Bruxelles. Quasi un’elezione diretta. Peccato che pochi lo sappiano. Resta una novità simbolicamente importante, per quanto controversa. Ma non cambierà molto le cose. Non questa volta almeno.
Non è così per l’altra novità di queste elezioni. Sono le prime dopo la più grave crisi che l’Ue abbia attraversato nella sua storia. Sono le crisi che producono il cambiamento, soprattutto quelle profonde e prolungate. Quella cominciata nel 2010 certamente lo è. Milioni di persone in tutti gli stati membri ne sono state toccate e sono state costrette a fare i conti con i costi e i benefici dell’appartenenza ad una comunità che prima della crisi era ancora una cosa vaga per i più. Oggi l’euro e l’Unione sono diventati in molti paesi il tema centrale della campagna elettorale. Da questo punto di vista queste sono le prime vere elezioni europee. Lo sono perché l’Europa è diventata una linea di divisione tra i partiti, tra quelli che difendono le ragioni dell’euro e dell’Unione e quelli che invece sono scettici o addirittura contrari all’uno e all’altra.
Partiti populisti, euroscettici o eurofobi sono presenti in quasi tutti i paesi europei. Dove più e dove meno. Non c’è da meravigliarsi se avranno successo, soprattutto in alcuni paesi come Gran Bretagna, dove lo UKip di Lafarge è dato addirittura davanti a laburisti e conservatori, Francia e Italia. La rabbia, il disincanto, la paura ne alimentano l’appeal. Giocano a loro favore molti fattori. La crisi economica è uno. Ma c’è anche il fatto che queste sono elezioni in cui, proprio perché la posta in gioco non è il governo nazionale, gli elettori si sentono più liberi di votare in modo diverso, più liberi di punire i partiti maggiori e soprattutto quelli al governo, e di premiare i partiti più radicali e anti-sistema. Anche il meccanismo elettorale proporzionale li favorisce.
Il successo relativo di questi partiti domina il dibattitto, ma non è un grave rischio di per sé. Anzi, la loro presenza servirà a dar vigore al discorso sull’Europa e alla fine a legittimare maggiormente istituzioni e politiche dell’Unione. È finito il tempo del consenso acritico. È giusto che l’Europa non sia più un fatto scontato. I partiti europeisti saranno costretti a chiarire il loro messaggio e a difendere le ragioni dell’integrazione. Il vero rischio è che si faccia una lettura distorta del risultato del 25 maggio. E allora è essenziale che tutti tengano presente che non è affatto vero che l’idea di una Europa unita sia cosa del passato. Su questo i dati dei sondaggi dell’Eurobarometro sono istruttivi. Nonostante cinque anni di crisi profonda e lacerante, nemmeno l’euro ha perso il sostegno della maggioranza dei cittadini europei (fig.2). Questo è vero addirittura in Grecia. Ciò che colpisce di più è la convinzione che per affrontare la crisi e la sfida della globalizzazione non si possa più contare sui vecchi stati nazionali. Convinzione che è maggioritaria e diffusa in maniera omogenea in tutti i paesi Ue (fig. 3-4). Su questo tema praticamente scompaiono le differenze tra paesi. Ed è la stessa convinzione che spiega il sostegno a una maggiore integrazione nei campi della politica di difesa e di sicurezza oltre che della politica estera (fig.6).
Per questo non sorprende che il sentimento di cittadinanza europea sia più diffuso di quanto si creda. Certo, ci sono differenze importanti tra paesi su questa dimensione (fig.5). La crisi pesa. Nei paesi più colpiti, come Italia, Grecia e Cipro è un sentimento minoritario. I cittadini di questi paesi sono allineati, ma per ragioni diverse, agli inglesi nel sentirsi meno europei degli altri. Questo deve far riflettere. Non era così una volta. Ma nel complesso il quadro non è negativo. Non si può dire che sia in crisi l’idea di un destino comune dei popoli europei. È in crisi il messaggio sul come perseguirlo. Con quali politiche e con quali obiettivi. Al messaggio nichilista dei partiti populisti ed euroscettici si deve contrapporre con forza quello dei partiti convinti che l’Europa se non sarà una non sarà niente.
Il Sole 24 Ore 18.05.14