La storia di Meriam è semplice e sconvolgente. Per i giudici sudanesi è un’apostata: figlia di un musulmano e di una cristiana, che l’ha cresciuta da sola, ha abbracciato la religione della madre e non quella del padre come prescrive il diritto islamico. Per questo è stata condannata a morte da una corte locale. Per quei giudici è anche un’adultera: musulmana per forza, in base alla nascita, ha sposato un cristiano e il matrimonio — celebrato in abito bianco, come testimonia la foto che la ritrae il giorno delle nozze — è di conseguenza nullo. Alle donne non è concesso sposare un non musulmano (agli uomini sì). Per questo è colpevole di adulterio e per questo sarà frustata cento volte prima di essere impiccata.
L’apostasia è vietata nei Paesi islamici. Pochi però prevedono la pena capitale. Nei più moderati la soluzione teologica è quella di concedere ai colpevoli «il tempo necessario a pentirsi»: anche tutta la vita. Ma qui siamo a Khartum, nelle terre di Omar Al Bashir, ricercato per crimini di guerra e contro l’umanità. A Meriam di giorni ne hanno concessi quattro. Lei non ci ha ripensato: sono sempre stata cristiana, come posso essere accusata di apostasia? Incinta di otto mesi, resta in cella con accanto il suo primogenito di un anno e mezzo. Aspetta l’appello, aspetta che i giudici (magari quelli di un’istanza superiore, su fino alla Corte Suprema) facciano i conti con l’assedio diplomatico e mediatico internazionale. E decidano se sospendere o no l’esecuzione di una donna che con le sue scelte indipendenti — prima la religione, poi il marito — minaccia «la purezza» della comunità alla quale è chiamata ad appartenere secondo un codice chiuso.
Il destino di Meriam ricorda le vite in ostaggio delle liceali rapite in Nigeria. Due elementi sovversivi tornano a incrociarsi: la libertà di non aderire a una fede come quella professata dai fanatici di Boko Haram e dal regime fondamentalista sudanese; la libertà di determinare la propria esistenza in quanto donne. Libertà di studiare, pregare, amare, di andare via. Queste due storie, insieme, da una parte denunciano il crescere delle tensioni interconfessionali in Africa e dall’altra raccontano la resistenza a un movimento femminile che porta mutamenti nei confini sociali.
Davanti all’immagine della giovane sposa sudanese, come davanti al video delle 200 adolescenti costrette a cantare la propria conversione sotto il tiro dei kalashnikov, sentiamo un dovere, un impegno da prendere: quello di respingere l’idea che si tratti di vicende lontane e complicate e rare, rispetto alla quali possiamo mantenere una distanza di sicurezza intellettuale e non abbandonarci a mobilitazioni ingenue. Sono 39 i Paesi nei quali è vietato cambiare religione e 25 quelli dove sono in atto persecuzioni contro i cristiani. Sono milioni le donne oppresse in tutto il mondo. Ma prenderci cura dell’esistenza di alcune tra loro e nello stesso tempo informarci, interrogarci su quanto accade aiuta a spezzare lo scudo d’indifferenza dietro il quale cerchiamo riparo dal male. Sopraffatti da una sensazione di impotenza che fa apparire inutile e inopportuno ogni sforzo. La rassegnazione, a volte, diventa un inconsapevole scivolo verso la neutralità. E la neutralità al cospetto dell’ingiustizia, ricorda Desmond Tutu, si rivela una forma di complicità.
Il Corriere della Sera 17.05.14