È un enorme piacere e un onore essere qui per festeggiare la classe dei diplomandi del 2014. Penso che sia più che opportuno celebrare proprio oggi lo storico caso della Corte Suprema, non soltanto perché il caso Brown partì proprio da qui a Topeka, o perché ricorre il suo sessantesimo anniversario, ma perché credo che tutti voi — i nostri diplomandi — siate l’eredità vivente di
quel caso.
Per capirlo è sufficiente guardarci intorno, osservare tutti i colori, le culture, le confessioni religiose rappresentate qui. Voi tutti arrivate da posti diversi e avete percorso strade diverse per arrivare a vivere questo momento. Forse, i vostri antenati hanno vissuto per secoli qui in Kansas. Forse, invece, sono arrivati in questo paese in catene, come i miei antenati. A prescindere da come siete arrivati fino a qui, siete arrivati a vivere questo giorno insieme.
Per molti anni avete studiato insieme, nelle stesse classi. Avete giocato per le medesime squadre, avete frequentato le stesse feste. Avete discusso tra voi le vostre idee, e ascoltato ogni opinione e prospettiva possibile. Avete sentito parlare nei corridoi altre lingue, inglese, spagnolo e altre ancora, tutte mescolate in un unico dialogo americano. Avete festeggiato ciascuno le feste e le tradizioni degli altri.
Cari diplomandi, è evidente che una parte molto importante dell’istruzione che avete ricevuto non l’avete ricevuta semplicemente in classe, ma direttamente dai vostri compagni di classe. In fondo, la speranza e il sogno di Brown erano proprio questo. È per questo motivo che stiamo facendo festa, perché quando il caso Brown vs. Board of Education arrivò alla Corte Suprema nel 1954 la vostra esperienza qui a Topeka era del tutto inimmaginabile. Come voi tutti sapete, allora Topeka era una città nella quale vigeva la segregazione razziale: bianchi e neri avevano ristoranti separati, alberghi separati,
teatri separati, piscine separate, e anche alle scuole elementari c’era la segregazione.
E così, anche se molti bambini neri vivevano ad appena pochi isolati dalla scuola dei bianchi del loro quartiere, dovevano prendere l’autobus e scendere dopo molte fermate, entrare in scuole per soli neri dall’altra parte della città. Alla fine, un gruppo di genitori di bambini di colore si stancò di questo stato di cose e decise di fare qualcosa in proposito.
I genitori si rivolsero al tribunale per chiedere che le scuole dei bambini fossero desegregate. Provate adesso per un momento a pensare a quelle persone che dovettero rivolgersi addirittura alla Corte Suprema degli Stati Uniti soltanto per affermare una questione di principio: che i bambini neri e i bambini bianchi avrebbero dovuto poter frequentare la scuola insieme.
Oggi, a sessanta anni di distanza, probabilmente tutto ciò parrà assurdo e insensato per le classi che si diplomano. Voi tutti date per scontata la diversità dalla quale siete circondati. E questo è del tutto comprensibile, se teniamo conto del paese nel quale siete cresciuti: una governatrice donna, un giudice della Corte Suprema di origini latino-americane, un presidente di colore. Avete visto cantanti latinoamericani vincere premi Grammy e allenatori neri vincere il Super Bowl.
Avete assistito a spettacoli televisivi con personaggi di ogni background possibile, e quando seguite uno show come “The Walking Dead” non vi interessa se si tratta di una donna nera, di un ragazzo di colore, di un asiatico-americano, di una coppia gay, di un bianco. Tutto ciò che vi interessa è che c’è un gruppo di amici che cerca di salvarsi dall’arrivo degli zombie.
Vedete? Se siete cresciuti in un posto come Topeka, nel quale tutto ciò che avete conosciuto è la diversità, i vecchi pregiudizi non hanno più senso alcuno. Ma ricordate: non tutti sono cresciuti in un posto come Topeka. Sappiate che molti distretti di questo paese hanno invertito la marcia e hanno smesso di sforzarsi per integrare le loro scuole e molte comunità sono diventate meno diverse perché alcuni cittadini si sono trasferiti dalle città in periferia. Oggi, quindi, in un certo senso le nostre scuole sono segregate come lo erano quando Martin Luther King fece il suo discorso. Di conseguenza, molti giovani in America frequentano scuole che in buona parte hanno studenti identici. Noi sappiamo che oggi in America troppi individui sono fermati in strada a causa del colore della loro pelle, o non sono accolti bene a causa del luogo dal quale provengono, o sono oggetto di sopraffazioni a causa delle persone che amano.
La verità è che il caso Brown vs. Board of Education non è soltanto la nostra storia: è anche il nostro futuro. Perché anche se quel caso si chiuse 60 anni fa, il caso Brown si discute ogni singolo giorno, e non soltanto nelle aule dei tribunali o delle scuole, ma nel modo stesso col quale viviamo la nostra vita. Le risposte a molte delle sfide con le quali siamo alle prese noi oggi non si trovano necessariamente nelle nostre leggi: il cambiamento deve aver luogo anche nelle nostre menti e nei nostri cuori.
Sta a voi indicare la strada e trascinare la mia generazione e quella dei vostri nonni lungo di essa. Questa è la sfida che io oggi vi lancio. Ci saranno occasioni in cui vi sentirete frustrati o scoraggiati. Ma ogni qualvolta a me capita di sentirmi così, mi piace fermarmi e ripensare a tutti i progressi ai quali ho assistito nell’arco della mia vita. Penso a mia madre, che da bambina frequentava una scuola per soli neri di Chicago e sentiva quanto fosse pungente la discriminazione. Penso ai nonni di mio marito, bianchi nati e cresciuti qui in Kansas, loro stessi oggetto di segregazione, persone buone e oneste che hanno aiutato ad allevare il loro nipotino meticcio, ignorando coloro che avrebbero voluto mettere in discussione l’esistenza stessa di quel bambino. E poi penso che quel bambino è cresciuto ed è diventato presidente degli Stati Uniti. Infine, mi piace pensare alla storia di una donna che si chiamava Lucinda Todd e fu il primo genitore a firmare per la causa Brown vs. Board of Education. Oggi, a distanza di sessant’anni, la bisnipote della signora Todd, una giovane donna di nome Kristen Jarvis, lavora come mio braccio destro alla Casa Bianca. Traduzione di Anna Bissanti L’autrice è la First Lady degli Stati Uniti d’America.
La Repubblica 17.05.15