Nel 1920 Paul Valéry scrisse un lungo poema metafisico sul tempo e la morte. Lo intitolò Cimitero marino, perché era ossessionato dal mistero del mare, dal fascino dei suoi segreti e dalla ricerca dell’immortalità. Da allora, ogni volta che dei marinai non tornano più, si parla del mare come tomba insondabile e senza appello.
Guardando le foto di quei corpi di immigrati che hanno trovato “asilo” nei fondali marini al largo di Lampedusa, viene in mente quella poesia, prima di immaginare come e perché quelle persone abbiano avuto una fine tanto tragica. Uomini e donne che sono precipitati in una spessa assenza, in una profonda solitudine. Il mare è diventato la loro ultima dimora, il cimitero di tutto quello che hanno sognato, la tomba di tutte le loro speranze. I loro occhi si sono perduti nei flutti, i loro corpi si sono dissolti nelle alghe e nel silenzio, la loro memoria si è svuotata dei ricordi.
CHE cosa dire? Che cosa scrivere? Gli dei sono rimasti calmi. Gli uomini sono indaffarati. Il cielo è indifferente.
Partiti da molto lontano, hanno marciato con l’Europa negli occhi, un’illusione, un errore. Sapevano che altri prima di loro avevano compiuto questo viaggio, e che avevano perso la vita. Ma a che vale una vita senza dignità, senza lavoro, senza luce interiore? Quando non si ha più nulla da perdere, si tenta l’impossibile, e il tuo destino prende la via dell’esilio e cade in pezzi finché l’anima non spira.
Hanno marciato e attraversato Paesi, montagne, mari, per finire, quella notte del 3 ottobre 2013, in una cisterna nera che li ha stritolati, inghiottiti: alcuni sono stati rigettati su e altri sono rimasti nelle profondità marine. I loro corpi stanno lì, come oggetti trovati in un’imbarcazione naufragata. Sono prove a carico per un processo che non avrà mai luogo. Sono ancora vestiti, ma che ne è stato dei sogni che avevano costruito mettendoci musica e colore? Si sono sciolti in questo mare divoratore di vite, spietato e senza scampo. Ah, il Mediterraneo che cantano i poeti! È un mare dove molto sangue è stato versato. È diventato un grande cimitero e continua a esserlo, perché contro la disperazione degli uomini, la morte degli altri non serve a niente. C’è qualcosa in loro che dice: «Io ci riuscirò! ».
E intanto certi politici urlano al lupo, seminano paura e incolpano gli immigrati di tutti i mali. Sono sempre più numerosi quelli che sfruttano le sventure degli immigrati per fare propaganda e vincere elezioni. Il razzismo si è banalizzato. Certi intellettuali sono convinti che l’identità europea sia minacciata dal multiculturalismo, che l’islam sia la peggiore delle religioni, che il “razzismo antibianco” non venga perseguito. L’odio e la paura si alleano contro i nuovi “dannati della terra”. L’Europa che ha ancora bisogno di manodopera straniera non ha battuto ciglio di fronte a quella tragedia, che è stata seguita da altri morti, altri drammi. Ha la memoria corta o pigra, egoista e cinica. È così. I Paesi del Sud, alcuni dei quali mal governati, accetterebbero volentieri investitori che dessero lavoro a quegli uomini che emigrano perché si vergognano di non essere in grado di garantire una vita decorosa ai loro figli.
Delle soluzioni ci sarebbero, ma per arrivarci servirebbe che l’Europa prendesse coscienza del problema e lo affrontasse in modo serio. Visto che i sondaggi ci rivelano tutti i giorni che i partiti di estrema destra potrebbero arrivare in testa alle elezioni europee del 25 maggio, il rischio è che la situazione si aggravi e che ci troveremo a guardare altri aspiranti immigrati affondare in nuovi cimiteri marini. (Traduzione di Fabio Galimberti)
La Repubblica 16.05.14