Il nostro mondo, preda di ingiustizie e conflitti, ha bisogno dell’Europa. Ma dell’Europa come era stata pensata, e cioè basata su un forte contratto sociale che ambisce alla giustizia collettiva e a proteggere gli svantaggiati; dell’Europa che per gestire i conflitti internazionali ricorre alla diplomazia e alla legalità, e non alla forza degli eserciti; dell’Europa che lavora con l’ambiente, e non contro l’ambiente, dimostrando così di essere più avanzata di buona parte del pianeta.
QUESTA Europa ideale, però, è venuta meno e nel corso degli ultimi anni ha preso alcune decisioni che l’hanno allontanata da ciò che doveva essere. Il regresso è evidente in molti ambiti, perfino in quei settori economici che quasi per definizione sono un po’ “predatori” e che dunque negli anni potrebbero aver tratto vantaggio, come le grandi banche
europee.
Oggi, invece, ci stiamo richiudendo nei bunker. Due dei bunker più grandi che abbiamo appena ultimato sono il regime di asilo dettato dal regolamento di Dublino III e il nuovo progetto di unione bancaria.
Invece della molto discussa unione bancaria che darebbe vita a meccanismi di ridistribuzione, siamo ricaduti nelle usanze del passato, con le classi politiche e bancarie di ciascun paese fin troppo amichevoli tra loro. Con tutti i suoi limiti e il suo obiettivo comune — un settore bancario forte — l’unione bancaria avrebbe imposto a paesi con tanto credito come la Germania di prendere provvedimenti per aiutare i paesi più poveri e fortemente indebitati. Nel migliore dei casi questo avrebbe richiesto un’Europa che in parte riprendesse la proposta di Keynes per la quale i paesi più ricchi hanno l’obbligo di mettere i paesi più poveri e indebitati nella condizione di poter reagire, così da garantire un sistema globale più sano. Keynes fallì nel suo tentativo, soprattutto perché gli Stati Uniti all’indomani della Seconda guerra mondiale non vollero fermare il tentativo delle banche e delle corporation di prendere il potere. Ma anche l’unione bancaria europea ha deluso, soprattutto perché la Germania non ha voluto rischiare di trovarsi bloccata con le obbligazioni che i paesi dell’Ue più ricchi avrebbero dovuto accollarsi nel nome di un’Unione europea sana.
Il secondo segnale del decadimento europeo riguarda l’asilo. Come nel caso dell’unione bancaria, un regime comune per l’asilo non è una faccenda semplice. L’Europa riuscirà a escogitare qualcosa di più ragionevole e giusto delle regole oggi vigenti? Dublino III crea un conflitto tra i paesi europei meridionali e quelli settentrionali. Rende vittime sia coloro che cercano asilo sia i paesi meridionali europei più poveri, che al momento sono tra quanti accolgono in maggior numero i richiedenti asilo — Spagna, Italia, Grecia. Questo, naturalmente, è il peggiore patto possibile. I paesi dell’Europa del Nord offrono condizioni più vantaggiose rispetto a quelli meridionali e così si è sparsa la voce: i richiedenti asilo vogliono raggiungere la Germania. Tuttavia, la legge prevede che essi si registrino nel primo paese nel quale mettono piede in Europa. Ciò ha significato che molti richiedenti asilo finiscano per essere doppiamente illegali nei paesi settentrionali, vedi in Germania: evitano di registrarsi nei paesi meridionali — come la legge impone loro di fare — per non restare bloccati lì, ma allo stesso tempo non possono registrarsi nei paesi settentrionali perché sono entrati in Europa da quelli meridionali.
Né l’unione bancaria né l’unificazione del diritto di asilo sono progetti facili. A dire il vero, per molti sembrano entrambi irrealizzabili. Eppure, l’Europa ha dimostrato con la sua stessa storia che ciò che sembrava impossibile era fattibile.
Ecco un esempio che mi piace utilizzare per illustrare in che modo ciò che sembra irrealizzabile è in realtà possibile e può diventare uno strumento per trarne ulteriori benefici. Riguarda una delle caratteristiche del Vecchio Continente più ammirate in tutto il mondo, e cioè la “città aperta” tipica dell’Europa. Si tratta di un elemento cruciale della storia d’Europa, spesso trascurato, che dimostra come la sfida per incorporare lo “straniero” diventino strumenti per sviluppare la comunità civile nel senso migliore della parola. Ed è uno strumento che oggi potrebbe assumere forme e contenuti nuovi.
L’ostilità per gli immigrati e gli attacchi contro di loro si sono verificati in ciascuna delle più importanti fasi migratorie dei principali paesi europei. Nessuno Stato che accoglie manodopera ne è immune: né la Svizzera, con la sua lunga e apprezzabile storia di neutralità internazionale, né la Francia, il paese più aperto all’immigrazione, ai profughi e agli esuli. Nel 1800 i lavoratori francesi uccisero quelli italiani, accusandoli di essere cattivi cattolici.
Sono sempre esistiti, tuttavia — come del resto esistono ancora oggi — , singoli individui, gruppi, associazioni e politici che credono nell’idea di rendere le nostre società maggiormente inclusive nei confronti degli immigrati. La storia ci insegna che coloro che combattono per l’integrazione alla fine ottengono ciò che vogliono, anche solo in parte. Se vogliamo concentrarci sul recente passato, un quarto dei francesi ha un antenato nato all’estero, tre generazioni indietro, e il 32 per cento dei viennesi è nato all’estero o ha genitori stranieri.
Potrebbe essere utile a questo proposito, e tenendo conto della sconfortante situazione sull’immigrazione di oggi, ricordare che l’Europa soffre di una mancanza di prospettiva storica, e questo è assurdo. L’Europa ha una storia secolare, a stento riconosciuta, di migrazione interna dei lavoratori. Un fenomeno rimasto nell’ombra rispetto alla “storia ufficiale”, nella quale predomina l’immagine di Europa come continente di emigrazione, mai di immigrazione. Eppure, quando Amsterdam nel Settecento costruì i suoi polder e drenò i territori paludosi importò lavoratori della Germania del nord; per le loro vigne i francesi sfruttarono gli spagnoli; quando Milano e Torino si svilupparono importarono operai dalle Alpi; quando Londra costruì le sue infrastrutture per l’acqua e per le fogne si servì di irlandesi; quando nell’Ottocento Haussmann rifece Parigi, fece arrivare operai tedeschi e belgi; quando la Svezia decise di aver bisogno di palazzi eleganti, importò gli italiani; quando la Svizzera costruì il tunnel del San Gottardo, utilizzò immigrati italiani; e quando la Germania ricostruì le sue ferrovie e le sue acciaierie si servì di immigrati italiani e polacchi.
Anche se molti di questi lavoratori migranti tornarono nei rispettivi paesi di origine, molti altri sono rimasti, soprattutto nelle grandi città. L’integrazione degli immigrati in Europa nel corso dei secoli ha imposto la fatica di redigere norme nuove, soprattutto perché l’Europa prende molto sul serio le sue città e il senso civico. Lo fa molto più seriamente, per esempio, degli Stati Uniti, per i quali in passato è sempre valso il principio “vieni pure, ma ti arrangi”. Questo atteggiamento scoraggiante negli Usa è cambiato, però non ha seguito l’esempio europeo di una maggiore attenzione nei confronti della comunità: ha promosso la nascita di uno “stato di polizia” all’interno dello stato.
Dal mio punto di vista, questa premura nei confronti della comunità e delle proprie città è una dinamica cruciale nella storia d’Europa, spesso fin troppo ignorata e trascurata, che dobbiamo invece riscoprire. Sarebbe infatti di enorme utilità oggi, anche nel caso in cui assumesse forme e contenuti nuovi.
Questa è la chiave della loro utilità: vista la premura dell’Europa nei confronti della comunità, le sfide per incorporare lo “straniero” sono diventate strumenti per far evolvere il senso civico nell’accezione migliore della parola, aspetto che sviluppo ed esamino in maniera approfondita nel mio libro Territory, Authority, Rights ( che uscirà in Italia per Bruno Mondadori). Un singolo esempio illustra la validità di questo progetto pratico: se una città deve avere un sistema di trasporti pubblici efficiente, deve permetterne l’accesso a tutti, a prescindere dal loro status. Non può controllare i cittadini o lo status di immigrati di coloro che “sembrano stranieri”. Un sistema di trasporti pubblici efficiente deve avere una regola minima condivisa: procurati il biglietto o l’abbonamento e potrai accedervi. Questo è tutto. Se oggi potessimo pensare in termini altrettanto pratici e affrontare questi aspetti critici in maniera semplice e concreta (non nelle aule della politica o dei tribunali), potremmo compiere un notevole passo avanti verso un’integrazione degli stranieri. E ne beneficerebbero anche ai nativi.
( Traduzione di Anna Bissanti) Saskia Sassen, sociologa, insegna alla Columbia University. Il suo nuovo libro si intitola Expulsions: Brutality and Complexity in the Global Economy. Cambridge, Massachusetts: Harvard University Press ( sarà pubblicato in italiano da Il Mulino)
La Repubblica 08.05.14