L’intervento del Presidente della Repubblica sui fatti di sabato ridimensiona il ruolo dello Stato. Additare il perverso rapporto fra le società di calcio e gli ultras è uno sprono sul quale vigilare ma fuori e dentro l’Olimpico si è consumato il dramma di un sistema-Paese. Sarebbe cinico e poco utile non considerare questa realtà. E solo lo Stato può intestarsi una definitiva battaglia contro l’inquinamento di uno spaccato di vita pubblica e sociale qual è il calcio in Italia. Per ragioni essenziali alla sua nobile esistenza e legittimità: lo Stato come titolare delle politiche che permettono un pieno diritto di cittadinanza. Non solo inasprendo le sanzioni, come viene promesso a ogni rovescio (come se i divieti non ci fossero), ed è inutile ricordare i 45 milioni spesi in questo «capitolo» se poi si depositano i tifosi a 4 chilometri dallo stadio, obbligandoli alla processione in città, con tutti i rischi annessi: nei Paesi civili i «mezzi» avvicinano gli appassionati alle strutture, senza ghettizzarli altrove e poi – magari – scortarli.
Non ci piace, non ci basta, l’approccio repressivo (che fu decisivo in Inghilterra). È un desiderio stucchevole come tutte le profezie reiterate ma è anzitutto un “lavoro culturale”: fabbricare un nuovo tessuto connettivo. Il Paese è immiserito (economicamente, intellettualmente) ma non è violento. Ci sono società assai più pericolose, dove si va a scuola armati per sparare ai coetanei (negli Usa) ma dove l’evento sportivo è vissuto in modo festoso e la partecipazione dell’avversario è riconosciuta come fondamentale, e per questo rispettata. In breve: si frequenta e si celebra un momento condiviso, «nazionale», non si partecipa a un rituale di tifo. E sulla consegna degli stadi a questo rituale (che poco alla volta si è elevato a Repubblica autonoma: si è visto) la colpa dello Stato è evidente. I provvedimenti degli ultimi tempi hanno definitivamente escluso dagli spalti le famiglie e gli appassionati occasionali: dai terribili treni speciali alla tessera del tifoso, ogni cura ha nutrito il male alimentando il tifo organizzato, fanatico e professionale, di fatto esaltando il ruolo padronale degli ultras dentro strutture che ancora le società di calcio non riescono a possedere: altro “ritardo” del Parlamento, che ha legiferato sulla materia dopo aver congelato la norma per 7 anni. Da quale piedistallo lo Stato oggi chiede alle società di recidere questo legame?
C’è poi il compito più ambizioso: ricostruire il senso della legalità che è il contorno di una comunità, mentre la cultura ne è il concime. Quel perimetro è stato varcato da tutti: dai tifosi, che per chiarirlo lo scrivono anche sulle maglie, dove si invertono vittime e carnefici. E sulle maglie perfino i protagonisti oltraggiano le sentenze: il «32» rivendicato dalla Juventus cresce dentro lo stesso disprezzo delle regole e delle sentenze che vorrebbero riaffermarle, e si fa beffe del senso di responsabilità che i «forti» accumulano su loro stessi. Ma quel rovesciamento della verità (che in fondo è distruzione democratica) è lo stesso che anima il revanscismo dei poliziotti che applaudono gli assassini di Aldrovandi: ancora una volta lo Stato non può salire sul piedistallo. Deve scendere, e lavorare sodo.
Prima ancora di chiedere al mondo del calcio la «separazione» da chi passeggia oltre quella frontiera deve esso stesso separarsi in senso etico, marcare un territorio «giusto», «onesto», «bello» e slegare queste parole assolute e confuse dalle loro negazioni perché questa separazione è mancata proprio alla politica, all’arte di governare le società e la complessità. Perché a Roma non si è consumata la tragedia del calcio ma si è raccontata la penosa autobiografia di un Paese.
L’Unità 07.05.14