L’Italia si è incurvata. Da tempo. Guarda, assiste, subisce. Dovrebbe non giocare più, non a queste condizioni. Invece si volta dall’altra parte, fa passare la nottata, e il giorno dopo piange e si lamenta. I cattivi le hanno fatto male. Cosa si fa? I vertici sportivi (Giancarlo Abete, Federcalcio, Maurizio Beretta, Lega di serie A e i loro predecessori) preoccupati solo delle poltrone e di non assumersi un minimo di responsabilità fanno la faccia triste, misurano distanze, diventano sociologi: «È la società ad essere violenta, gli incidenti sono avvenuti fuori dallo stadio». In pratica: noi non c’entriamo. Culturalmente chi amministra lo sport è colpevole di ignavia. Il tifoso è un appassionato che sbaglia, anzi che esagera, non un delinquente. Va capito, e dai, vuol bene alla squadra. I dirigenti del calcio che ora fanno le vittime, lo sono eccome. Ma di se stessi, della loro vigliaccheria: mai una reazione in tutti questi anni in cui bruciavano treni, quartieri venivano devastati, e negli stadi entrava di tutto: motorini, svastiche, asce, odio, criminali. Solo in Sudamerica e in qualche paese sottosviluppato c’è la stessa situazione. In America appena un proprietario di una squadra di basket (i Clippers) ha parlato con toni razzisti dei neri, la Lega lo ha squalificato a vita. Spendeva miliardi, eppure è stato cacciato. In Italia il calcio (campione del mondo nel 2006) non si è mai dato una casa degna, si è sempre accontentato della sua pochezza. Stadi vecchi, che invitano ad essere bestie dietro al recinto, non spettatori. Dove le bestie ultrà imprigionano il paese che alza le mani, si arrende, e tratta: vi cediamo il comando, ma non esagerate. Come dire ai banditi: questa è la banca, prendete solo quello che vi serve. In questo momento, secondo la classificazione Uefa, in Italia non c’è un solo stadio di categoria élite, ce ne sono quattro a 4 stelle.
In Germania invece 12 sono di élite e 10 a quattro stelle. Sarà proprio un caso che Guardiola è andato ad allenare lì? I nostri ormai sono stadi spettrali. Un territorio nemico, dove basta una sciarpa sbagliata e ti accoltellano.
Poi c’è lo Stato, le forze dell’ordine. Lo Stato ha sempre considerato gli ultrà come un fuoco amico. Dagli orari regolari. Per questo comodo. Ne conosce gli appartenenti e il territorio in cui si muovono. Mentre la violenza sociale e politica viene repressa, quella da stadio viene sopportata. È a tempo. Controllabile. Non sono nemici dello Stato, solo dementi che giocano a fare la guerra, pericolosi nella loro feroce ignoranza. Che se la sbrighino tra curve, facciano i conti tra di loro, noi stiamo a guardare. Trattino, così si calmano, e si evitano guai peggiori. Questo è il patto, che la polizia agevola. Voi rapinate la banca senza sparare, e noi non vi inseguiamo. Non è una politica, è una resa di autorità. Ultrà e capitani si parlano, poi decidono i teppisti. Gli allenatori che se ne devono andare (Giampaolo a Brescia), se si deve giocare (finale Coppa Italia, derby Lazio-Roma). Genny ‘a Carogna è il leader di un pezzo indipendente delle Curve d’Italia. Ivan il terribile Bogdanov, capo ultrà che nell’ottobre 2010 a Genova decise di far sospendere Italia-Serbia, fu arrestato, Genny invece è tornato a casa. Non è uno straniero, ma uno di famiglia, una controparte. All’estero il calcio è bello da guardare, riesce perfino a fare ironia su una banana razzista. In Italia fa schifo, soprattutto perché nessuno ha voglia di giocare seriamente.
La Repubblica 06.05.14
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L’intervista Nella mente dell’Ultrà “altro che Black bloc l’anti Stato siamo noi e la violenza vincerà”, di PAOLO BERIZZI
Ha ventisei anni, è un universitario fuoricorso, non ha i muscoli pompati e non assomiglia per niente a Gennaro ‘a carogna: “Quelli che usano ancora i nomignoli di battaglia sono la vecchia guardia, ultraquarantenni destinati ad uscire presto dal giro, gente che pensa più agli affari che a scatenare l’inferno”. Lui invece è un animale da stadio di ultima generazione. Giacca nera con cappuccio come segno di riconoscimento ma anche per non farsi identificare. A volte il casco, nero pure quello. “Ti ripara, però negli agguati limita la visuale”. Amante della guerriglia e dello scontro. Nel calcio ma anche fuori. “Perché io e tanti altri abbiamo deciso di uscire dal recinto delle partite. E chi voleva schedarci ora deve fare i conti con noi nelle piazze e nei cortei”. Diceva un capotifoso, uno della vecchia guardia, collezionista di scontri “a mani nude” negli anni ‘90, che fare la guerra nel tuo stadio è meglio che fare l’amore con la tua donna (lui la declinava in altri termini). È vero? «Se fai i casini è perché ti piace e ci stai dentro e in quel momento lì stai bene».
Adrenalina a fiumi, forse. O no?
«Ti sale una cosa qua». Preme con il dito all’altezza dello sterno, poi lo fa scorrere fino alla gola mostrando la scritta brechtiana “dalla parte del torto” e un altro motto — “a guardia di una fede” — tatuati con inchiostro nero e blu sull’avambraccio.
Che cosa sale?
«È una specie di scarica che parte dalle gambe e divampa nella testa: e a quel punto parti. Parti e basta. Contro gli sbirri o contro i tuoi nemici. La tua storia è partire e fare danni. Hai l’asta della bandiera che è una mazza di legno o di ferro rivestita di plastica. Le hai viste a Roma? Hai bombe carta e fumogeni. E tiri su tutto quello che trovi: pietre, bottiglie, pezzi di metallo, cartelli stradali, materiale da cantiere».
L’ultrà di ultima generazione parla con il tono disincantato di un peter pan che all’infanzia senza fine ha sostituito una violenza sporca, feroce. Chiamatelo Fabrizio o come volete. Ventisei anni, un corpo per niente pompato, Atalanta e molto altro che ha ancora meno a che fare col calcio. Giacca impermeabile nera con cappuccio, marchio tecnico ispirato a una parete da arrampicata che è diventato un must per gli ultrà: un po’ divisa perché anonima («nei filmati non sei riconoscibile»), e un po’ segno di riconoscimento, «per distinguersi dai tifosi “normali” ». A vederlo Fabrizio, universitario fuoricorso, pare l’opposto di Genny ‘a carogna. Fisicamente, ma anche come baldanza. Dice cose da abisso umano ma senza ostentare; un suo “socio” di incidenti dice che se fosse un animale sarebbe una iena: mammifero che si ciba prevalentemente di carcasse.
Niente nome di battaglia?
«I nomignoli sono superati. Gli ultrà che si fanno ancora chiamare con un soprannome, tipo banditi o mafiosi, sono gente sopra i 45 anni. Capi, sì. Come “Genny” o come “Gastone” (Daniele De Santis, ndr). Ma destinati a uscire dal giro. Perché i nuovi sono diversi: meno cinema (protagonismi, ndr) e più scontri. Come era una volta. Prima che nascesse la figura del capotifoso, che in molte curve pensa più a fare soldi che scontri».
Ci racconta la sua ultima guerriglia?
«Domenica scorsa a Bergamo. Atalanta-Verona. Aspettiamo i veronesi, sono in tanti. Gli sbirri circondano il piazzale dello stadio di fronte al settore ospiti. Partiamo e andiamo contro i poliziotti per cercare lo scontro coi veronesi che stanno arrivando in pullman. Iniziamo a lanciare. Quando lanci una bomba carta lo fai per aprirti il varco. Per spaccare » .
A Roma hanno sparato. Colpi di pistola come in Sudamerica. Nel 2014. Allo stadio. Per il calcio. Follia.
«Brutta storia. Succede se decidi che vale tutto, anche le pistole che in Italia non si erano mai viste. Ognuno si dà il suo codice. Ho iniziato a fare scontri che avevo 15 anni, mi hanno sempre detto che i coltelli sono da infami e le pistole le usano solo i rapinatori.
Non do giudizi, non so “Gastone” che cosa avesse nella testa. Comunque i napoletani di oggi fanno paura, sono i più tosti. Paragonabili solo a certe tifoserie dell’Europa dell’Est ».
Torniamo a quella «scarica che sale». Quante volte la sente? Solo allo stadio?
«La senti tutte le volte che decidi di andare dove c’è casino. Chi crede che gli ultrà li trovi solo allo stadio è rimasto indietro di cinque anni almeno».
Che cosa vuole dire?
«Oggi si va dappertutto. Ci sono manifestazioni che come disordini valgono dieci partite. Se ci sono incidenti lo sai prima. E vai. Io sono nato col calcio. Mi piace lo stadio, la rivalità tra gruppi. Ma negli ultimi anni ho partecipato a decine di cortei perché sapevo che c’era casino. Dagli “Indignati” ai “Senza casa” ai “Forconi” alle proteste studentesche. E i No-Tav. L’anno scorso ero in Val di Susa ogni fine settimana. Dove ci sono scontri ci sono anche gli ultrà. Fanno da supporto».
Perché vi siete trasformati in teppisti multitasking, buoni — si fa per dire — per tutte le occasioni?
«Abbiamo alzato il tiro. Siamo usciti dai perimetro dello stadio. Lo Stato aveva deciso di eliminarci con la repressione. Avevamo detto che non ci saremmo arresi e infatti molte tifoserie la tessera del tifoso l’hanno boicottata. Per protesta a Bergamo abbiamo assaltato Maroni con le molotov. Nessun tesserato. Niente trasferte. Niente scontri fuori casa».
E quindi?
«Lo Stato adesso ci ritrova nelle piazze. I napoletani a Chiaiano per l’inceneritore, quelli del Nord a Torino coi Forconi o in Val di Susa, romani fiorentini e livornesi a Roma coi “Senza casa”. Voi li chiamate black bloc, ma sono ultrà».
La politica c’entra?
«Zero. Al vero ultrà della politica non gliene frega niente. In curva i politicizzati ci sono, ma chi vuol far politica non rischia il culo sotto una bomba con dentro i chiodi».
Il ministro degli Interni Alfano, dopo Roma, pensa un Daspo a vita per gli ultrà più violenti.
«Il Daspo è una pena ridicola. Negli anni ‘80 e ‘90 c’era il carcere. Comunque più lo Stato alza il livello della repressione e più le curve alzano il livello della violenza. Vediamo chi vince».
Ma che senso ha tutto questo?
«La gente è incazzata. Prima aveva voglia di aggregazione, adesso di fare casino».
Perché vi vestite tutti di nero, senza più sciarpe né vessilli coi colori della squadra?
«Gli sbirri ti riconoscevano da una sciarpa o da un cappellino. Così, tutti in jeans e giubbino nero, è più difficile. Anche il casco se lo metti è nero. Ti ripara, però negli agguati toglie la visuale».
La Repubblica 06.05.14