I fischi, i boati, gli insulti che ieri hanno sommerso il discorso di Bondi a Bologna, in occasione della ricorrenza della strage del 2 agosto 1980, provocano disagio. Perlomeno in tutti coloro che hanno in mente un’idea dialettica ma non belligerante della politica.
Non so se la replica del direttore dell’Avvenire abbia chiarito i dubbi dei cattolici sul comportamento del premier. Alla pillola abortiva il giornale dei vescovi ha dedicato molto più spazio
Ogni cittadino può valutare da sé la presa di posizione dei capi ecclesiastici e definire quanto abbiano a cuore il bene comune e si diano da fare per cercare l’amore nella verità
Per chi ha ancora negli occhi l’immagine della solidarietà politica, istituzionale e civile che si espresse davanti alla Stazione distrutta, quattro giorni dopo la bomba, con il discorso del sindaco Renato Zangheri, e la mano di Sandro Pertini ferma sul tricolore, risulta scomodo assistere al rumoroso ostracismo espresso dalla piazza bolognese verso un rappresentante del governo.
Ieri Bondi, che rappresentava le istituzioni e non soltanto una parte politica, non è riuscito a completare il suo discorso. In altre occasioni si era assistito a scene del genere, anche in presenza di ministri del centrosinistra. Ieri tuttavia contro Bondi c’è stata una specie di insurrezione diffusa; è stato un “popolo” di sinistra, disseminato in tutta la piazza, a esprimere il proprio rifiuto verso il rappresentante del governo Berlusconi. Una minoranza? Ma se anche si trattava di una minoranza, e se anche si può giudicare assai discutibile se non deprecabile questo comportamento, non vanno dimenticati due aspetti, esplicitamente politici.
In primo luogo, nella lunga stagione del berlusconismo si è assistito alla mobilitazione di una parte politica contro l’altra. Scientificamente, con metodo, Silvio Berlusconi e la destra politica hanno creato o suscitato elementi di frattura fra due società contrapposte, rendendole incompatibili: da una parte le forze della “libertà”, dall’altra tutto ciò che finisce sotto l’etichetta di “comunisti”, e che raccoglie e demonizza le opposizioni, i loro partiti, perfino le loro espressioni e funzioni sociali.
Si tratta di una spaccatura quasi antropologica, prima ancora che politica e culturale, che nel nostro paese non si era mai osservata dopo lo scontro “di civiltà” del 18 aprile 1948. Oggi, in un clima di evidente frustrazione da parte delle forze di sinistra, risulta comprensibile che l’atteggiamento verso il governo assuma toni aspri, e per certi aspetti anche inappropriati rispetto alla tragedia, immane, che si vuole ricordare, e al ruolo simbolico ancora esercitato da Bologna.
Può anche essere che questa frustrazione politica sia accentuata in questi mesi dal metodo adottato dal governo, con l’espropriazione di fatto del Parlamento. Può darsi inoltre che la dissoluzione extraparlamentare della sinistra massimalista e le difficoltà della sinistra riformista accentuino gravemente un senso di impotenza e quindi l’insofferenza verso il potere indiscusso della destra.
Ma esiste anche un altro aspetto da valutare, che entra in gioco ogni volta che si sfiora la memoria dell’attentato e la sua valutazione politica. A distanza di quasi trent’anni, dopo sentenze che hanno fissato con nettezza la sua matrice, dopo condanne definitive, ogni anniversario della strage è divenuto l’occasione per una specie di revisionismo maligno, inteso a negare le origini ideologiche da cui generò l’attentato, cioè le sue radici nel terrorismo di destra.
Da anni, ormai, a ogni ricorrenza spuntano le interpretazioni più fantasiose e creative (la Cia, i libici, i servizi tedeschi, il Mossad, i palestinesi, il terrorismo di Carlos…), con la chiara intenzione di relativizzare quell’evento spaventoso, di sottrargli risonanza, di ricondurlo al rango di incidente romanzesco. Tutto questo senza mai una denuncia circostanziata o una ricostruzione alternativa credibile. Chiacchiere. Voci. Pettegolezzi geopolitici. Mondanità dietrologiche.
Ecco, anche questo, per Bologna, rappresenta l’incessante riaprirsi di una ferita. E allora non si tratta qui di rivendicare un’ortodossia giudiziaria al di sopra di ogni dubbio, e neppure di mitizzare l’educazione politica e civile di una città che comunque è apparsa per decenni una comunità modello. Ma è il caso di iscrivere l’insofferenza, e anche la collera, di una parte di questa comunità in un clima che è stato creato e sollecitato, ora con sistematicità, ora con complice irresponsabilità.
Non tanto per giustificare o assolvere nel nome di un pregiudizio; bensì per valutare con sobrietà, attribuendo con equilibrio e intelligenza responsabilità che non sono di una parte sola.
La Repubblica, 3 agosto 2009
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