Complice anche la fiorente pubblicistica che ha riportato in auge il «tema diseguaglianza», abbiamo imparato a familiarizzare con le complesse misure statistiche che fino a poco fa erano confinate agli studi degli economisti. L’indagine del Censis sulla distribuzione dei redditi e dei patrimoni nel nostro Paese ha tuttavia il vantaggio di tradurre indici e coefficienti in numeri concreti e facilmente accessibili a tutti. Scoprire che i 10 uomini più ricchi d’Italia vantano un patrimonio che è superiore a quello di cui dispongono tutti gli abitanti di Milano messi insieme fa senza dubbio un certo effetto. Così come sapere che, negli ultimi dodici anni, il reddito reale di una famiglia della classe media si è ridotto di un quinto, mentre quello dei più ricchi è addirittura aumentato. Il problema della crescente diseguaglianza non è certo qualcosa che riguarda solo il nostro Paese. Gli studiosi si sono a lungo interrogati – e tuttora dibattono in modo acceso – sulle ragioni di questo preoccupante e repentino peggioramento nella distribuzione di redditi e ricchezza. Indubbiamente la crescente globalizzazione dei mercati e il progresso tecnologico hanno giocato un ruolo importante. Tuttavia non si può prescindere anche dalle precise scelte di politica economica relative all’assetto dei vari mercati. È innegabile che le scelte dei vari governi nello scorso ventennio – anche quelli progressisti – abbiano subito l’effetto di un orientamento ideologico meno ostile rispetto al passato ad un aumento delle diseguaglianze. È negli anni Novanta che torna in auge la cosiddetta tesi dello «sgocciolamento», che non era nient’altro che la riproposizione del tradizionale argomento conservatore per cui il benessere della società nel suo complesso si poteva ottenere con politiche favorevoli alla parte più ricca della società stessa, perché più produttiva e quindi capace di aumentare la ricchezza complessiva per tutti. Nel dibattito pubblico la diseguaglianza diventava così il prezzo da pagare per avere un’economia più dinamica. La celebre metafora della marea che crescendo avrebbe sollevato tutte le barche, grandi e piccole, diventò lo strumento con cui liquidare le critiche di coloro che si ostinavano a non volersi allineare al nuovo corso. Diversi rapporti Ocse evidenziano come il sistema fiscale dei paesi industrializzati – che nel decennio 1985-1995 si era fatto più redistributivo – a partire dalla metà degli anni Novanta abbia mostrato una capacità decrescente di contrastare la diseguaglianza, anche in quei paesi in cui era storicamente più forte la propensione a redistribuire. Quella che riguarda imposte e trasferimenti non è tuttavia l’unica scelta di politica economica che ha inciso sull’aumento della diseguaglianza. Sempre l’Ocse ha più volte segnalato come un impatto molto rilevante lo hanno avuto soprattutto le riforme finalizzate ad aumentare la concorrenza nei mercati dei beni e dei servizi, per non parlare della massiccia deregolamentazione intervenuta nel mercato del lavoro. Su quest’ultimo, il riferimento è rivolto in particolare a tutti quegli interventi che hanno ridotto il grado di protezione per i lavoratori: dall’esplosione dei contratti temporanei alla riduzione dei minimi salariali, dalla tendenza verso la decentralizzazione nella fissazione dei salari alla riduzione della cosiddetta «densità sindacale» (il rapporto tra iscritti ai sindacati e occupati) o della copertura degli accordi collettivi stipulati dai sindacati (la proporzione dei lavoratori il cui salario dipende dalla contrattazione sindacale). Non marginali sono stati infine gli effetti negativi determinati dalla riduzione dei sussidi di disoccupazione in quasi tutti i paesi industrializzati. Si tratta di un insieme di fattori che hanno minato seriamente il potere contrattuale dei lavoratori e hanno di conseguenza inciso neagativamente sulla distribuzione funzionale del reddito.
È innegabile che, per quanto riguarda il sistema fiscale, il governo abbia avviato una forte inversione di rotta rispetto al passato. Sia l’innalzamento delle aliquote sulle rendite finanziarie che l’abbattimento della tassazione sui redditi più bassi sono provvedimenti che avranno effetti positivi sia sulla crescita che sulla distribuzione del reddito. Purtroppo non altrettanto si può dire per quanto riguarda le riforme che stanno investendo il mondo del lavoro. L’iniziale promessa di una riduzione della precarietà e di una più facile stabilizzazione dei rapporti di lavoro sembra scontrarsi con le resistenze di coloro che, nel decennio passato, vedevano nella deregulation giuslavoristica la medicina per uscire dalla bassa crescita (con i modesti risultati che ben conosciamo). Sarebbe un peccato che lo sforzo per ridurre la diseguaglianza venisse vanificato dai veti di questi nostalgici di ricette fallite.
L’Unità 04.05.14