Populismo, populisti. A meno di un mese dalle elezioni per il Parlamento di Strasburgo se ne parla come di uno spettro che si aggira per l’Europa. Senza trovare nei partiti e negli establishment tradizionali degli acchiappafantasmi capaci di metterlo in scacco. Se si materializzerà lo capiremo subito dopo il 25 maggio, quando sapremo se il fronte neopopulista incardinato sull’alleanza tra Marine Le Pen e il leader del Pvv olandese Geert Wilders sarà riuscito o no a dar vita a un suo eurogruppo, per la cui costituzione occorrono 25 deputati eletti (e sta qui la difficoltà principale) almeno in 7 dei 28 Stati membri dell’Unione.
Già adesso paghiamo però, e ancor più rischiamo di pagare in futuro, un prezzo salato anche al pressapochismo politico e culturale con il quale in questi anni è stato affrontato un fenomeno che non si lascia esorcizzare né da sprezzanti alzate di spalle né, tanto meno, dagli anatemi. Perché ha una storia ormai antica, che comincia con i narodnik russi e il People’s Party americano di fine Ottocento, e passa per l’Uomo Qualunque, per Poujade e i suoi piccoli commercianti impoveriti e furibondi, magari anche per Peron e i suoi descamisados, di certo per Dreux, storico bastione rosso e proletario francese che nel 1983 passa in un battibaleno in mani lepeniste. Ma, e questo è il punto più importante, è riuscito a trovare in Europa negli ultimi anni nuove motivazioni, un nuovo e più vasto bacino d’udienza almeno potenziale, nonché nuovi leader capaci di ammodernarne e in qualche modo incivilirne il messaggio politico, rendendolo accettabile anche per mondi sino a ieri irraggiungibili.
Per capirci: molti elettori francesi ai quali non sarebbe mai passato per la testa di votare Le Pen padre non si fanno problemi a votare Le Pen figlia, o quanto meno non escludono in via pregiudiziale questa possibilità. E qualcosa di non troppo dissimile capita, o può capitare, in altri Paesi europei. Ma non in Italia. Dove una dose più o meno massiccia di populismo (in senso lato) è presente in quasi tutti gli attori politici, a cominciare ovviamente da Beppe Grillo, ma dichiaratamente neopopulista (in senso europeo) è solo la Lega. Se sia il caso di rallegrarsene o, tutto al contrario, di preoccuparsene, è naturalmente un altro discorso.
In ogni caso. Chi ha voglia di dedicare un’oretta o poco più del suo tempo a cercare di saperne e di capirne qualcosa di più può leggere utilmente il documentatissimo ebook (First on line – i goWare) che su populismo e neopopulismo, hanno scritto il direttore di West, Guido Bolaffi, e il suo vice Giuseppe Terranova. Vi troverà un’agile quanto dettagliata ricostruzione di ciò che unisce (in primo luogo, ovviamente, la parola d’ordine: no euro, ma non solo questa) e di ciò che divide non solo dagli ultranazionalisti dell’Est o dagli euroscettici, ma anche tra loro, forze che hanno storie e culture politiche anche molto differenti. Non è un caso, per esempio, se i britannici dell’Ukip (stimati da molti sondaggi come il secondo partito, dopo i laburisti, nelle imminenti elezioni, e quindi decisivi anche per la formazione del gruppo parlamentare in Europa), considerandosi un partito libertario, sono tuttora ben poco inclini a fare cartello con forze come il Fronte nazionale.
Prima ancora, il lettore troverà elementi utili a comprendere come e perché partiti e movimenti di origine nazionalistica, e (relativamente) radicati soprattutto tra i settori più disagiati della popolazione, siano riusciti a darsi — all’apparenza è un paradosso vistoso — una dimensione metanazionale, parlando anche a zone (relativamente) larghe di ceti medi acculturati e a loro modo moderni. Così che, là dove c’era, con tutta la sua carica di xenofobia, la lotta all’immigrazione, ecco che il contrasto si è concentrato sull’Islam e l’islamismo, in quanto irriducibilmente estranei e ostili alla nostra cultura (diritti non solo delle donne, ma anche dei gay compresi) e al nostro modo di vita; e la “preferenza nazionale” in materia di lavoro e di welfare ha preso il posto della lotta ai lavoratori immigrati che «ci rubano il pane».
Un’operazione, più o meno riuscita, di maquillage? Sì, ma non solo. Perché sono in larga misura cambiati i soggetti cui il messaggio neopopulista si rivolge. Non più, o non più solo, i perdenti ormai politicamente fuorigioco (gli operai comunisti francesi, tanto per fare l’esempio più classico), ma una vasta middle class impoverita, declassata (un tempo si sarebbe detto: proletarizzata) e frustrata, che non ha mai praticato la lotta di classe organizzata, ma ha di nuovo imparato che cosa sia il rancore sociale. Come hanno colto bene studiosi del calibro di Tony Judt, è stato proprio per legare questi ceti alla democrazia, dopo la catastrofe degli anni Venti e Trenta, che ha preso corpo nell’Europa occidentale lo Stato sociale, promosso, nei principali Paesi europei, dai democristiani molto più che dai socialdemocratici; e della democrazia per come la abbiamo nel bene e nel male conosciuta essi hanno rappresentato uno dei supporti fondamentali. In tempi di globalizzazione, non è più scritto che sia così. Anzi. La loro crisi e la crisi di una politica che, a livello nazionale e tanto più a livello europeo, sembra aver rotto l’antico patto con il popolo senza neanche immaginarne uno nuovo e diverso sono due facce della medesima medaglia. «Non è detto che le democrazie riescano sempre a soddisfare le aspettative dei ceti medi, ma quando non lo fanno loro si innervosiscono e si agitano», ha scritto di recente Francis Fukuyama: per una volta, c’è da dargli ragione. Tanto più che nulla lascia prevedere, per il prossimo futuro, un’inversione della tendenza al declassamento.
È tutto da stabilire in quale misura questo elettorato così poco ideologico, al quale nessuno è in grado di dire se, quando e come tornerà in movimento l’ascensore sociale bloccato, farà proprio il motto neopopulista «europeo quando necessario, nazionale tutte le volte che è possibile»; e quanto invece si indirizzerà verso un’astensione carica di protesta che però, paradossalmente, stavolta giocherà a favore delle forze tradizionali di sinistra, di centro e di destra, o si turerà il naso votando per i partiti consolidati. Ma di sicuro è cominciata una partita nuova e molto rischiosa. In tutt’altre faccende politiche (apparentemente) affaccendati, noi la seguiamo un po’ a distanza, quasi da spettatori. Eppure tutto è cominciato, trent’anni fa, proprio in Italia, anzi, in Padania. Perché del neopopulismo, anche se non ce siamo accorti, Umberto Bossi è stato il padre fondatore.
Il Corriere della Sera 03.05.14