Thomas Polgar, ultimo capo della Cia a Saigon e uno degli ultimi americani a lasciare la capitale del Vietnam nei giorni della disfatta 1975, scomparso da poche settimane a 91 anni, amava dire: «Abbiamo perso la guerra in Vietnam per il golpe in Cile e la guerra del Kippur». A chi chiedeva stupito, come un colpo di Stato in America Latina e una guerra in Medio Oriente del 1973, avessero innescato una sconfitta nel Sud-Est asiatico, Polgar spiegava tranquillo che il Congresso, furioso per l’appoggio della Cia e del segretario di Stato Kissinger al golpe di Pinochet, non concedeva più spazi di manovra, civili o militari, al Vietnam, e che l’impegno economico per sostenere Israele dopo il Kippur, nel pieno della crisi energetica del petrolio, impedì ogni resistenza in Vietnam.
Avesse torto o ragione su Saigon, il metodo della vecchia spia Polgar è spesso utile. Fatti lontani nel presente, si rivelano cruciali causa ed effetto nella storia. Noi viviamo giorni storici, il mondo che ne nasce sarà diverso da quel che immaginiamo.
Ma dobbiamo almeno provare a cercare i nessi decisivi. La classe dirigente tedesca, per esempio, resta filo Putin, persuasa che l’interesse energetico a breve cancelli ogni preoccupazione strategica: e, a stare ai dispacci diplomatici, la cancelliera Merkel avrebbe persuaso il nostro governo a questa linea «morbida», corroborata sembra dall’interpretazione delle fonti russe sulla telefonata tra il leader del Cremlino e il nostro primo ministro Renzi. Come è cambiato il mondo! Milizie filorusse organizzate da Mosca in Ucraina orientale (quelli del passamontagna per capirci) sequestrano i sei osservatori Osce di un team tedesco, si rifiutano di trattare con il ministro degli Esteri di Berlino Steinmeier con tale protervia da venirne definiti «disgustosi». Infine però Berlino porge l’altra guancia: e, badate, le fonti confermano che l’ex ragazza della Germania Est, Angela Merkel, è la più dura del Paese, industria e finanza, guidate dall’ex cancelliere socialista Schroeder lobbysta di Putin, accetta che la Russia, dopo porzioni di Georgia e Crimea, ingoi anche l’Ucraina, purché l’Ebitda non ne risenta.
Cosa può fare allora il presidente Obama? Poco. La spaccatura Usa-Ue, che la guerra in Iraq del 2003 non provocò, ma solo aggravò, è compiuta, e in poche ore il leader della Casa Bianca legge sui bollettini che la Cina è prossima al sorpasso economico 2014 su Washington, con gli Stati Uniti che perdono la testa del pianeta per la prima volta dal 1872, quando alla Casa Bianca venne rieletto il generale Grant. Non basta: i dati sul Pil, malgrado le scuse sul pessimo inverno, parlano di una crescita «all’italiana» 0,1%, sotto le pur mediocri previsioni Federal Reserve 1,1%. Peggio, un sondaggio del quotidiano finanziario «Wall Street Journal» stima che la metà degli americani, 47%, è stufa e stanca di intervenire nel mondo, e vuole la Casa Bianca concentrata sull’occupazione.
America isolazionista come negli Anni Trenta? Le sfortunate guerre in Afghanistan e Iraq, costate miliardi di dollari e migliaia di vite umane, hanno disgustato gli americani, eppure la maggioranza dei cittadini ritiene «troppo prudente» Obama in Ucraina, mentre il 53% boccia la sua intera politica estera e il 58 l’economica. Lo studioso conservatore Max Boot nota il paradosso: l’America non vuole impicciarsi con il mondo, ma non approva la politica estera di un presidente che se ne impiccia pochissimo. Che succede?
Succede che i nessi vanno ricercati lontano, abbiamo dimenticato che il presidente Roosevelt non riuscì a far dichiarare guerra al Congresso prima di Pearl Harbor, e anche dopo l’attacco giapponese il Parlamento nicchiò ad attaccare Italia e Germania, che fecero da sole l’errore di affrontare lo Zio Sam. Gli europei non capiscono che, in un mondo instabile, i commerci rischiano, gli americani non comprendono come leadership economica, politica e morale sono integrate, non si può essere Paese numero 1 in un solo ambito. La classe media Usa, a lungo la più benestante, è sorpassata dai canadesi, perde ricchezza e status; le infrastrutture Usa, strade, ponti, edifici pubblici, comunicazioni, sono bocciate una per una, «da terzo mondo» dal devastante rapporto «Financial Times».
Ma chi ha in America la forza di proporre un piano di lavori pubblici, scuole migliori, Difesa high tech e senza sprechi, tagliando i sussidi a industrie obsolete? Provateci e la sconfitta elettorale è certa. Dunque il mondo, in giorni di storici eventi che non fanno titoloni sui siti web, non vede i nodi che il futuro considererà con acribia. L’America crede di poter essere leader senza sacrifici; Putin si illude di potere entrare in tutta l’Ucraina, non capendo che la sua crescente aggressività ha già svegliato polacchi, svedesi e baltici e domani sveglierà gli altri europei; la Cina è, per ora, vincitrice della «guerra speciale» in Ucraina, con Casa Bianca e Cremlino in gara per corteggiarla, mentre gode dei comunicati «Numeri 1 economici!», ma ci vorranno al ritmo attuale decenni, prima che la classe media cinese abbia il tenore di vita europeo o americano, il disastro demografico rallenta la corsa, crescono in piazza e sul web malumori politici e sociali.
Siamo un mondo di miopi, grandi e piccoli. La lezione di Polgar brilla adesso con il Vietnam, che temendo l’invadenza cinese, si avvicina ai vecchi nemici del 1975, gli americani. Per dieci anni Washington ha perduto partner per eccesso di aggressività. Putin in Ucraina e i cinesi nelle isole Sankaku-Diaoyu chiariscono a tanti (forse perfino agli europei a un certo punto) che forse è comunque meglio esser amici degli americani nel duro XXI secolo. E gli americani intanto cantano «Che mi importa del mondo…». Povero Polgar: riposi in pace!
La Stampa 01.05.14