L’Italia è tra i Paesi sviluppati uno di quelli che più scoraggia l’occupazione femminile, con effetti negativi per lo sviluppo e la competitività. Lo ripetono da anni studiose e studiosi di vario orientamento. Di recente lo ha denunciato anche Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale. L’effetto negativo, tuttavia, non riguarda solo la scarsa valorizzazione del capitale umano e la resistenza ad ogni tipo di innovazione organizzativa. Riguarda anche lo scoraggiamento della fecondità.
Come avviene ormai in quasi tutti i Paesi Ue, in Italia il numero di figli desiderati è più alto rispetto al numero di figli che effettivamente si hanno. Lo scarto tra i due numeri, tuttavia, in Italia è mediamente maggiore, avendo l’Italia uno dei tassi di fecondità tra i più bassi. Il nostro è un Paese in cui conciliare responsabilità famigliari e lavoro remunerato è molto difficile: perché i servizi per la prima infanzia e le scuole a tempo pieno sono mediamente insufficienti e distribuiti in modo molto disomogeneo; perché la divisione del lavoro in famiglia continua ad essere molto asimmetrica tra uomini e donne; perché nell’organizzazione del lavoro si è diffusa più la flessibilità dettata dalle priorità aziendali che non quella che tiene conto delle esigenze dei lavoratori.
All’interno di questo fenomeno generale vi sono, tuttavia, importanti differenze tra donne, secondo il livello di istruzione, dell’area geografica di residenza, del tipo di professione. È più facile per le laureate che vivono nel Centro-Nord combinare lavoro remunerato e maternità. Anche per le laureate, tuttavia, lavoro e maternità possono apparire inconciliabili. Secondo gli ultimi dati Almalaurea, a cinque anni dalla laurea è occupato il 63,3% di coloro che hanno già un figlio a fronte del 75,8% di coloro che non ne hanno. La maternità allarga la differenza con i coetanei maschi, le cui percentuali sono rispettivamente 88,9% e 83,5%. Mentre la paternità è associata ad una più alta partecipazione al lavoro, per la maternità è vero il contrario. Il fatto è che le giovani laureate, oltre a sperimentare maggiori difficoltà di conciliare famiglia e lavoro quando hanno un figlio, rimangono anche più concentrate dei loro coetanei nei contratti di lavoro temporanei, quindi con minori garanzie in caso di interruzione per maternità.
Anche il tipo di contratto di lavoro, infatti, conta ai fini delle scelte di fecondità. I dati più recenti sulle forze di lavoro mostrano che tra le giovani tra i 25 e 34 anni esistono due tipi di distinzioni: una tra lavoratrici e casalinghe (una minoranza, in questa fascia di età), l’altra tra lavoratrici a tempo indeterminato e lavoratrici con contratti a tempo determinato. Le non lavoratrici hanno già almeno un figlio più frequentemente delle lavoratrici, al contrario dei loro coetanei uomini, che, se non sono occupati (e neppure studiano), nella stragrande maggioranza vivono ancora con i genitori e non hanno figli. Tra le donne occupate, la maggioranza in questa fascia di età, sono le lavoratrici stabili, insieme alle lavoratrici autonome, ad avere più spesso almeno un figlio. Nel 2013 aveva già un figlio il 34,1% di coloro che avevano un rapporto di lavoro stabile, a fronte del 23,8% di chi ne aveva uno a tempo determinato. Queste ultime, inoltre, più spesso non erano ancora uscite dalla famiglia d’origine.
È la precarietà nei rapporti di lavoro, più che l’essere tout court occupate, che pone vincoli alle scelte di fecondità. Non riduce solo la disponibilità di reddito e l’orizzonte temporale dei progetti di vita. Riduce anche le forme di protezione, aumentando, per le donne, i rischi lavorativi connessi alla maternità, imponendo rimandi che non sempre possono essere recuperati. Il proposito del governo di ridurre l’imposizione fiscale per le madri lavoratrici è un segnale di attenzione, anche se occorrerà fare attenzione a non farne pagare il prezzo alle famiglie monoreddito negli scaglioni più bassi. Ma i dati ci dicono che, almeno per quanto riguarda le scelte di fecondità, i due fattori più cruciali sono una ragionevole stabilità delle prospettive lavorative e la disponibilità di servizi per i bambini accessibili economicamente e di buona qualità.
La Repubblica 23.04.14