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Chiara Saraceno «Aumento drammatico, il tenore di vita è in picchiata», di Marco Ventimiglia

«Sì, ho letto questi ultimi dati diffusi dall’Istat. Si tratta, purtroppo, degli ennesimi numeri drammatici, anche se ho visto che l’enfasi maggiore viene posta sul numero di famiglie prive di reddito da lavoro che ha ormai superato il milione. Su questo occorre intendersi, poiché all’interno di questi nuclei possono anche esserci dei pensionati che in qualche modo alleviano la condizione di disagio. Piuttosto è l’aumento percentuale nell’ultimo anno a spaventare di più». Chiara Saraceno, sociologa ed esperta in problemi della famiglia, cerca subito di guardare oltre la crudezza dell’indagine statistica, peraltro ennesima fotografia di una crisi che non molla la presa.
Dunque è la crescita del 18% delle famiglie senza reddito a meritare maggiore attenzione?
«Sì, nel senso che rappresenta il numero che più degli altri segnala un deterioramento della situazione, una tendenza ancora molto forte nel 2013. Un dato che purtroppo non mi sorprende, e che anzi va di pari passo con il calo dei consumi e la continua crescita della disoccupazione, specie quella giovanile. In quest’ultimo caso, poi, siamo di fronte ad un’autentica emergenza generazionale che non riguarda soltanto la fascia degli under 24, dove c’è comunque una rilevante percentuale di studenti, ma soprattutto coloro che sono compresi fra i 25 ed i 34 anni d’età, per i quali spesso non esiste alcuna prospettiva occupazionale».
Ma qual è il costo sociale di questo incremento della povertà?
«Occorre distinguere, a cominciare da chi si trova nello stato di disoccupazione. Se a venir meno è un reddito secondario del nucleo familiare, in Italia spesso garantito dalle donne e in misura minore dai figli rimasti ancora a casa, l’impatto è talvolta più nei comportamenti delle persone che non sul tenore di vita vero e proprio. Se invece a perdere il lavoro è il principale percettore di reddito della famiglia, allora l’emergenza è innanzitutto economica, con la conseguente grande fatica ad affrontare i problemi della quotidianità, dal carrello della spesa al sostentamento scolastico dei figli. Per fortuna, a vari anni dall’inizio della crisi, ancora sono in atto dei fenomeni che danno un po’ di sollievo alle famiglie più in difficoltà»
A che cosa si riferisce?
«Penso al ruolo degli anziani nei nuclei familiari, che a volte può persino emergere in modo curioso a livello statistico. Mi riferisco, ad esempio, ai dati che hanno più volte segnalato una tenuta dei consumi da parte delle persone più avanti con gli anni a fronte del marcato calo complessivo. Salvo scoprire, andando nel dettaglio, alcuni acquisti singolari, come quello dei pannolini… Insomma, l’anziano si trova sempre più spesso a consumare per conto terzi».
Fenomeni che in qualche modo confermano una convinzione diffusa, quella delle famiglie italiane più capaci di altre nel fare quadrato di fronte alla crisi.
«Questo è vero fino a un certo punto. O meglio, lo abbiamo visto chiaramente nella prima fase della crisi mentre adesso la situazione è purtroppo diversa. Infatti, nei primi due/tre anni di difficoltà non si è assistito ad un aumento significativo della povertà, piuttosto a diminuire era la capacità di risparmio delle famiglie. Si metteva mano al salvadanaio nella convinzione che l’emergenza non sarebbe durata a lungo. Convinzione peraltro alimentata anche da chi governava il Paese».
Poi, che cosa è cambiato?
«È via via subentrata la consapevolezza dell’estensione temporale della crisi, mentre ad essere falcidiati sono stati sempre più i redditi principali delle famiglie piuttosto che i secondari, venuti meno nella fase iniziale. Da qui il balzo molto forte di tutti gli indicatori della povertà. Una fase che purtroppo è ancora in atto».
Se anche ritornasse improvvisamente il tempo sereno da un punto di vista economico, quanto tempo sarebbe necessario per riparare i danni sociali?
«Molto, molto di più. E questo essenzialmente per tre ragioni. Intanto ricordiamoci che negli anni pre-crisi, prima del 2008, la crescita italiana era già asfittica, inferiore a quelle delle altre nazioni europee. Poi, c’è un motivo strutturale: in questi anni sono state distrutte delle tipologie d’impiego che comunque non ritorneranno più, indipendentemente dall’andamento del Pil, con il materializzarsi di una crescita senza occupazione. Infine, c’è un evidente problema generazionale. I giovani che così tanto stanno patendo, nel momento di una ripartenza economica rischiano di scoprirsi già vecchi, scavalcati dalle successive generazioni».

L’Unità 22.04.14