Se è vero – come diceva Franco Lucentini – che le prime righe di qualsiasi romanzo sono fondamentali per il successo di un libro, si può dire che alcuni autori di lingua spagnola hanno dato un grosso con- tributo a questa tesi. Come Miguel de Cervantes, ad esempio: «In un paese della Mancia, di cui scordo il nome, abitava non molto tempo fa un gentiluomo di quelli con la lancia esposta nella rastrelliera, lo scudo antico, un cavallo tutto os- sa e un buon cane da caccia». O il messicano Juan Rulfo autore di Pedro Páramo: «Venni a Comala perché mi avevano detto che mio padre, un tal Pedro Páramo, abitava qui. Me lo disse mia madre. E io le avevo promesso che sarei venuto a trovarlo quando lei fosse morta». O come l’inizio di Cent’anni di solitudine del colombiano Gabriel García Márquez, scomparso l’atro ieri a Città del Messico all’età di ottantasette anni: «Molti anni dopo, di fronte al plotone d’esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio»…
Sì, è proprio vero, il vecchio «Gabo» non c’è più. Uno degli autori che maggiormente ha segnato non solo il cosiddetto boom della letteratura latinoamericana, ma l’intero panorama letterario del Novecento. Cent’anni di solitudine (del 1967) è stato, ed è, un libro imprescindibile, venduto in più di cinquanta milioni di copie nelle lingue di tutto il mondo. Un libro che ci cambiato l’idea di romanzo. Così come il suo autore ha cambiato la vita dei suoi lettori (sono parole del presidente della Colombia). E che così commentava: «Il mio problema maggiore era distruggere la linea di demarcazione che separa ciò che sembra reale da ciò che appare fantastico, perché nel mondo che cercavo di evocare tale barriera non esisteva. Ma avevo bisogno di un tono convincente, che rendesse verosimili le cose che meno lo parevano… bisognava raccontare una storia, semplicemente, come la raccontano i nonni».
È il «realismo magico», che più che una parola o una definizione o un modo di scrivere, è un modo di sentire, e di leggere. La parola nasce nel lontano 1925 – Magischer Realismus – a opera di un critico tedesco, tal Franz Roth, che la coniò per indicare un gruppo di pittori. Ma sarà con la letteratura latinoamericana (e non solo) che troverà poi la sua collocazione. Il termine lo incontriamo infatti nella premessa che lo scrittore cubano Alejo Carpentier scrisse per il suo romanzo del 1949 Il regno di questo mondo: «E cos’è la storia dell’America tutta se non una cronaca di reale-meraviglioso?» Forse il tentativo in campo letterario – ma anche in quello delle arti plastiche – di ridare forma e contorni a un continente che si è visto depredare di tutto: oro, argento, rame, petrolio, salnitro, caucciù… Di milioni di vite umane condannate dal- la violenza, dalle malattie giunte dal Vecchio Mondo, dal lavoro forzato. E depredati anche della memoria. Infatti ben poco è restato delle culture precolombiane. Eliminare il passato, usi e costumi, per creare una nuova storia del continente. Una storia tutta spagnola, portoghese, nordamericana, cristiana. Una condanna all’amnesia, che si ripeterà fino ai giorni nostri, con le dittature di Pinochet o di Videla. E in cambio una storia «ufficiale» che – come ha scritto Eduardo Galeano – «si riduce a una sfilata di notabili con uniformi appena uscite dalla tintoria».
Una letteratura che si sviluppa a macchia l’olio proprio a partire da queste radici che affondano nel fantastico, nel mistero, nella mitologia stessa della Scoperta. Dall’Antologia della letteratura fantastica di Borges e Bioy Casares alla Guerra della fine del mondo di Vargas Llosa, da Scorza a Eliseo Alberto. E cambia la realtà, vengono violate, forme, stili, sequenze spazio-temporali, cambiano gli spazi stessi delle città: nasce la Macondo di García Márquez, la «terribile» Comala di Rulfo, così come «le» Buenos Aires di Ernesto Sabato (Sopraeroietombe), di Borges (Eva- risto Carriego), di Cortázar (Divertimento), di Saer (L’indagine)…
Ed è su queste basi, in questa «compagnia», in America Latina o in esilio, che nasce l’opera di García Márquez: dalla sua nascita ad Aracataca, in Colombia, nel 1927, all’iscrizione all’università di Bogotá, subito interrotta per fare il giornalista, poi a Roma, a Parigi, in Messico e, finalmente, l’opera narrativa: Foglie morte nel 1955, Nessuno scrive al colonnello nel 1961, I funerali della Mamá Grande e La mala ora nel ’62, Cent’anni di solitudine nel ’67, L’autunno del patriarca nel 1975, Cronaca di una morte annunciata nel 1981, L’amore ai tempi del colera nell’85, Il generale nel suo labirinto nell’89, Dell’amore e di altri demoni nel ’94, Notizia di un sequestro nel ’96, fino a Memoria delle mie puttane tristi nel 2004. E gli articoli, i ricordi, la moglie Mercedes, i figli Rodrigo e Gonzalo, il cazzotto che gli diede il non più amico Vargas Llosa nel ’76, le discussioni, il marxismo, Fidel Castro, il Premio Nobel nel 1982 (dove, vestito di lino bianco, die- de una rosa gialla – il suo fiore preferito – a tutti gli amici e amiche per poterli riconoscere tra la folla che partecipava all’evento).
In una calda notte tropicale, a Barranquilla, con gli amici, tracannando whisky, annunciò che stava portando a termine il suo libro più importante, Cent’anni di solitudine, e disse: «Non assomiglia agli altri. Questa volta mi sono finalmente lasciato andare. O faccio un colpaccio, o mi rompo la testa!»
L’Unità 19.04.14
Il grande romanzo del giornalismo di Oreste Pivetta
Come si fa a pensare Gabo lontano da Macondo, dal colonnello Aureliano Buendia, anche (letterariamente) dal realismo magico, affascinante ossimoro attraverso il quale si definì tanta letteratura che con lui e dopo di lui ci giunse dall’America delle dittature, dei generali, ma anche delle utopie rivoluzionarie, dei grandi sogni, degli insuperabili orizzonti, paesaggi della terra e dell’ani- ma? Ma García Marquez era stato altro prima di diventare scrittore e forse era diventato scrittore frequentando giovanissimo la redazione di un giornale. Aveva ventuno anni, era il 1948, quando cominciò a «fare il giornali- sta», redattore e cronista. Non smise dopo i primi romanzi. Continuò con lo spirito giusto in una professione che dovrebbe essere animata dalla cultura, dalla moralità, dall’onestà, dalla passione civile, stimolato da un’America in perenne ansia di libertà e di democrazia. García Marquez giornalista lo rimase profondamente e orgogliosamente, non cessò probabilmente mai di esserlo.
Un trentennio dopo la pubblicazione del suo capolavoro, Cent’anni di solitudine, García Marquez scrisse Notizia di un sequestro, archiviato nelle bibliografie come un romanzo. Ma «Notizia di un sequestro» rappresenta prima di tutto un’alta prova di giornalismo, un faticoso reportage (lui stesso lo definì «l’impresa più difficile della mia vita») costruito attraverso mesi e mesi di indagini, a proposito di dieci rapimenti organizzati nel giro di dodici mesi, estremo ricatto dei narcotrafficanti nei confronti del governo legale. Lo si potrebbe citare come una «no fiction novel», prendendo a prestito la famosissima definizione di Tom Wolfe. «No fiction novel» come lo fu A sangue freddo, opera magistrale di Truman Capote attorno a un orrendo delitto, ma soprattutto sguardo sull’America della periferia, o come lo furono Il negus o Shah-in-shah di Ryszard Kapuscinski. Certo, anche in Notizia di un sequestro, come in tutti gli articoli della maturità, si può ritrovare Gabo dei romanzi, Macondo e il colonnello, men- tre la Colombia diventa un’isola dell’immaginario e il capo dei trafficanti il simbolo dell’illegalità, della violenza, di un potere riconosciuto e in- toccabile. Allo stesso modo si potrebbero leggere Le avventure di Miguel Littin, clandestino in Cile, dove García Marquez rievocò la storia vera di un film girato dal grande regista nel suo paese dopo il golpe di Pinochet, un reportage che sperimentava il respiro del romanzo.
Dopo gli inizi nel 1948 a Cartagena, nel ’40 Gabo si trasferì a Baranquilla, nel 1954 tornò a Bogotà, reporter ma anche critico cinematografico. Viaggiò in Europa, a Roma (per frequentare un corso di cinematografia), a Parigi, a Londra. Tornò in America, si stabilì in Venezuela, visitò Cuba, conobbe prima Guevara e poi Fidel Castro. Lavorò per l’agenzia «Prensa Latina», fondata dal Che. Come corrispondente di «Prensa Latina» si trasferì a New York. Gli venne negato presto il diritto d’ingresso. Scrisse della rivoluzione cubana, scriverà del Cile, seguirà ogni movimento libertario dal Venezuela in giù, ammirava Chavez, si scontrò invece con Uribe, presidente colombiano, fino al 2010, prima di sinistra, poi liberale… La politica fu sempre nel suo cuore. Lui fu sempre da una parte. Non abbandonò Castro neppure quando apparve quanto il regime cubano soffocasse la dissidenza e reprimesse gli intellettuali dissidenti. Scrisse anche dell’Italia, che visitò più volte, scrisse di Roma e di Milano, raccontò persino di Fregene: «A Fregene, una stazione balneare vicino a Roma, morì il mio carissimo amico Franco Solinas, uno degli scrittori di cinema meglio qualificati dei nostri tempi…». Sono poche pagine (e molte righe dedicate a Cesare Zavattini, «un italiano pieno di immaginazione e con un cuore da carciofo, che infuse nel cinema della sua epoca un soffio di umanità senza precedenti»), che suonano soprattutto testimonianza del suo rapporto con la settima arte, un «matrimonio senza armonia»: «Non posso vivere senza il cinema, né con il cinema».
Altra storia italiana: «Gli Stati Uniti pensavano che i comunisti sarebbero andati al potere in Italia grazie alle elezioni generali del 1948. La Cia, che era stata creata da poco, contribuì a impedirlo con tutto un sistema di macchinazioni truculente… La Cia fece circolare lettere false e documenti dubbi del Partito comunista per deteriorarne l’immagine pubblica…». Gabo narrava del Nicaragua e nel confronto storico denunciò il ripetersi dei metodi antidemocratici usati dalla Cia. Gabo invece a Roma diventò turista affascinato: «Sono tornato a Roma d’estate dopo una lunghissima assenza e l’ho ritrovata come sempre: più bella, e più sporca, e più pazza dell’ultima volta. L’estate esplose d’improvviso la settimana scorsa, con quel caldo che sembra di vetro liquido, e la moda femminile, che quest’anno ha lasciato le porte aperte a ogni genere di arbitrio di forme e colori, trasformò la città eterna nella più moderna e giovanile del mondo…». Siamo nel 1982, il peggio deve ancora arrivare. Gabo è stato attento osservatore della politica (assai di parte), ma anche del costume. E della nostra cucina, quando scoprì con la moda di «essere magri» la virtù dimagrante della pasta, senza negare il supremo valore del cibo: «… per molti anni si è detto, e non è mai stato smentito che la cantante operistica Maria Callas, che da giovane pesava quasi cento chili, avesse recuperato la sua linea grazie a una drastica dieta a base di spaghetti… Tuttavia, Monica Vitti è una delle donne più attraenti e snelle che conosca, e l’ho vista mangiare due piatti di spaghetti alla puttanesca e un coniglio intero con melanzane e, subito dopo, due chili di gelato alla crema, mentre guardava alla televisione un film di banditi…». Comprensibile se è vero che la nostalgia comincia dal cibo. Lo disse Ernesto Guevara, «forse rimpiangendo gli arrosti astronomici della sua terra argentina, mentre si parlava di cose di guerra durante le notti da uomini soli sulla Sierra Maestra». In poche parole il giornalismo può suonare come un romanzo.
L’Unità 19.0.14