Fra le classifiche che vedono l’Italia indietro rispetto a Paesi che riteniamo meno civili del nostro, c’è quella dell’uguaglianza. Misura l’uniformità con cui è distribuito il reddito fra le famiglie. Quanto a questo — a credere al Libro dei fatti della Cia — andiamo peggio dell’Egitto, dell’Armenia o del Kazakhstan. Siamo una società diseguale. Non solo da anni in decrescita infelice, ma sempre più divisa fra chi ha e chi non ha, dunque sempre più colma di livore e di una diffidenza fra i diversi gruppi che finisce per paralizzare ogni riforma e alla fine l’economia stessa.
È questo il problema che il governo di Matteo Renzi ieri ha cercato di affrontare, se per un attimo si immagina che le elezioni non sono tra un mese. Il premier ha preso la stessa torta di sempre, ma ha ritagliato le fette in modo diverso. Le ha fatte un po’ più larghe per chi di solito veniva penultimo nella distribuzione: non i giovani disoccupati senza rete né i pensionati sotto i 500 euro, ma i molti lavoratori da mille o 1.200 euro netti al mese. E ha gettato le basi per concedere fette meno vaste a certi italiani che prima se le ritagliavano fuori scala. Fra questi non solo i grand commis di Stato sopra i 240 mila euro lordi l’anno ma, in termini d’impatto sui conti, soprattutto gli imprenditori legati in modo feudale ai politici. Quelli che affittano una palazzina all’assessorato a prezzi pantagruelici o fanno pagare una siringa a un ospedale regionale quattro volte più del necessario.
Questa di Renzi è una classica operazione di (parziale) riequilibrio di una barca con molti portoghesi sul ponte e troppi che remano nella stiva. Però solleva due domande. La prima è se funzionerà. L’altra è se davvero è questo il tipo di manovra che alla lunga porterà ossigeno ai venti milioni di italiani che se lo sentono mancare, minacciati da una povertà di altri tempi.
Perché riesca, questa manovra non può essere fatta aumentando il deficit rispetto ai programmi per il 2014. Non c’è più spazio. Nelle stime del governo il debito pubblico quest’anno arriva di fatto al 135% del Pil e sono otto anni che non fa che salire e salire. Per Grecia e Cipro, i due grandi casi di default dell’area
euro, a Bruxelles si è deciso che il 140% del Pil era la soglia oltre la quale un debito pubblico non è più tenibile. Se tornassero i dubbi sulla capacità del Tesoro di finanziare e ripagare i propri titoli, come si è visto nel 2011 e 2012, quel bonus da 80 euro a testa finirebbe per costare dieci volte tanto a ogni italiano. Anche a chi lo riceve.
Il problema è che quanto a questo le zone d’ombra restano. Ieri il ministro Pier Carlo Padoan ha ammesso che i timori espressi dalla Banca d’Italia sono fondati: una quota (misteriosamente) imprecisata di risparmi da tagli di spesa è già assorbita da scelte compiute dal governo precedente. La visibilità sulla tenuta dei conti non era così bassa da anni. Le spese della Difesa non sono state tagliate, solo rinviate. La stessa tassazione supplementare delle banche sulle plusvalenze per la rivalutazione delle quote in Bankitalia appare incostituzionale: chi accetterebbe di farsi cambiare l’aliquota ex post su un’imposta dell’anno prima? E il grosso dei tagli, quei 2,1 miliardi sulle forniture dello Stato, resta da definire da parte degli enti locali (sotto minaccia, è vero, di una “ghigliottina” del governo se non si metteranno d’accordo).
Malgrado queste partite ancora aperte, Renzi redistribuisce la torta. Se quei dieci miliardi in più all’anno saranno tutti spesi, almeno un quinto finirà in Cina o in Germania perché servirà per comprare beni importati. Un’altra quota di quei soldi andrà ad arricchire ancora di più “imprenditori” e professionisti italiani che forniscono beni e servizi a caro prezzo da ben protette posizioni di rendita: il farmacista che fa pagare l’aspirina il doppio rispetto al resto d’Europa, il notaio, la società municipalizzata dell’acqua. Perché una distribuzione più equa della stessa torta è sì necessaria, ma da sola non basta. Non se il governo, osando scontentare un numero più vasto di elettori, non si muove anche per debellare le rendite e creare condizioni di lavoro nelle aziende più moderne e più produttive. In una parola, se non si decide anche finalmente a far crescere la torta.
La Repubblica 19.04.14