attualità, politica italiana

"Barack e Matteo asse anti-austerity", di Paolo Soldini

«Barack Obama per noi è un modella»: nelle parole pronunciate ieri da Matteo Renzi c’era qualcosa di più d’una espressione di cortesia diplomatica verso il Grande Alleato venuto d’oltre Oceano. Almeno per quanto riguarda la politica economica, non c’è dubbio che l’iniziativa dell’attuale amministrazione Usa, nel primo mandato e all’inizio del secondo, sia stata una fonte di ispirazione almeno per gli ultimi due governi italiani.

La cosa è evidente per quanto riguarda le misure per il lavoro, tanto evidente da aver indotto il capo del governo italiano, quando ha voluto definire il proprio progetto, ad usare un anglicismo come Jobs Act, criticabile quanto si vuole sul piano della lingua ma rivelatore efficace della natura delle suggestioni.

Ma non c’è soltanto il lavoro. La campagna che l’attuale amministrazione di Washington sta conducendo da almeno un paio d’anni per convincere Bruxelles e soprattutto Berlino a convertire la politica economica dal rigore alla crescita, dalle strette ai bilanci pure e dure agli investimenti e agli stimoli alla domanda interna, ha aiutato parecchio chi, come soprattutto l’Italia, metteva sui tavoli europei le stesse esigenze. L’America di Obama è stata qualcosa più di un alleato lontano. Quando il presidente mandava il suo ministro del Tesoro a «impicciarsi» in modo alquanto improprio delle decisioni dei consessi Ue, le tensioni con Bruxelles e i tedeschi erano evidenti ma i ministri italiani (e anche spagnoli e francesi) non nascondevano il proprio compiacimento. Così come i governanti di Roma e Parigi non presero certo le parti di Berlino quando Obama e i suoi, prima dell’avvento della große Koalition, criticarono aspramente le scelte neoliberiste del centro-destra di Angela Merkel, praticando ingerenze che in altri tempi sarebbero state respinte con sdegno.

Per quanto riguarda l’economia, i rapporti tra l’Europa e gli Stati Uniti hanno avuto spesso una geometria variabile. Un tempo prevaleva, anche sul piano economico e finanziario, la special relationship con Londra, che ebbe il momento più alto nell’apoteosi liberista di Reagan e della signora Thatcher ma durò ben più a lungo, e anche nell’America ufficiale ha regnato l’ostilità, culturale prima ancora che politica verso il welfare europeo. Con questo presidente democratico, e assai più che con i suoi predecessori della stessa fede politica, la geometria è cambiata. Al punto da indurre buona parte della destra europea – e buona parte della finanza – a diffidare esattamente come la destra americana del quasi socialista che s’è insediato alla Casa Bianca.

Ma negli incontri di Roma non si è parlato solo di economia, dove l’assonanza dei toni è stata evidente e sinceramente conclamata. Fino al punto da far dichiarare a Renzi (previa consultazioni con i partner Ue?) che cercherà di stringere i tempi dell’accordo sull’area di libero scambio Usa-Europa, bloccata dallo scoppio dello scandalo delle intercettazioni illegali americane, addirittura entro il semestre di presidenza italiano. O comunque – ha aggiunto per- ché s’è reso conto d’aver esagerato – entro il 2015. C’era il capitolo dell’alleanza politica, della Nato e degli impegni comuni nella sicurezza. E, ovviamente, l’Ucraina e il rapporto con la Russia di Vladimir Putin.

Anche su questa parte dei colloqui s’è esibita l’intesa. Ma forse qui c’è sta- ta più diplomazia che accordi di sostanza. Alla vigilia del suo arrivo a Roma il presidente Usa era stato chiaro, e abbastanza duro, sulla necessità che gli europei, e particolarmente gli italiani, mantengano gli impegni in fatto di difesa comune, e non solo per quanto riguarda gli F35. A Bruxelles gli osservatori meno giovani debbono aver avuto una sensazione di déjà vu. Da quando esiste la Nato, esiste, per gli americani, la questione del burden sharing, ovvero del riequilibrio in base al quale gli europei dovrebbero contribuire alle spese dell’alleanza per almeno il 2% ciascuno. In tempi di crisi come quelli attuali si tratta di un pio desiderio, giacché le spese militari da questa parte dell’Atlantico scendono quasi dappertutto, anche rispetto alla media dello 0,8% degli anni passati che gli americani trovavano già «scandalosa».

Il contrasto resta. E qualche differenza si percepisce anche rispetto alla questione più attuale, più complicata e potenzialmente esplosiva del che fare con la Russia dopo la Crimea. «Siamo d’accordo sull’Ucraina», ha detto Renzi. Ma l’impressione è che l’accordo ci sia perché nessuno si azzarda, per ora, a scendere troppo nei particolari, anche in materia di sanzioni. È dubbio che gli europei, soprattutto i tedeschi ma anche gli italiani, siano davvero disposti a conformarsi alle attuali intransigenze di Washington. Già arrivano i distinguo di Berlino sulla «cacciata» di Mosca dal G8 e (certi dettagli contano) sulla praticabilità delle profferte per l’eventuale sostituzione del gas russo con quello americano ricavato con il fracking, che in Germania è demonizzato come antiecologico. Niente di drammatico: anche in materia di relazioni con la Russia una certa geometria variabile dei rapporti interatlantici non è una novità, considerato che le differenze esistevano perfino ai tempi dell’Unione Sovietica.

L’Unità 28.03.14