Trentasei anni dopo la strage di via Fani e con una nuova commissione di inchiesta che potrebbe vedere la luce presto, l’agguato in cui venne rapito Aldo Moro e trucidati i cinque uomini della scorta, si arricchisce di un nuovo mistero. Rivelazioni che sollevano nuove ombre su un presunto coinvolgimento di uomini dello stato e su coperture di cui le Brigate Rosse avrebbero goduto. Un mistero che ruota attorno alla misterioso moto Honda blu presente sulla scena dell’agguato la mattina del 16 marzo del 1978 e i suoi due passeggeri che aprirono il fuoco contro l’ingegnere Alessandro Marini, uno dei testimoni della strage. Due persone che secondo i brigatisti Mario Moretti e Valerio Morucci non avrebbero avuto nulla a che fare con le Br. A sollevare i nuovi dubbi è Enrico Rossi, ispettore di Polizia in pensione per anni all’antiterrosimo. È lui, dopo un lungo silenzio, a raccontare all’Ansa la nuova «verità». «Tutto è partito da una lettera anonima scritta dall’uomo che era sul sellino posteriore». Secondo Rossi i due appartenevano ai servizi segreti, e avevano il compito di «proteggere» l’azione delle Br. «Dipendevano dal colonnello del Sismi Camillo Guglielmi – prosegue Rossi – che era in via Fani la mattina del 16 marzo 1978». Secondo la ricostruzione tutto nasce da una lettera anonima inviata a un quotidiano nell’ottobre 2009. Que- sta la lettera, diffusa dall’Ansa, che l’anonimo avrebbe lasciato ordine di consegnare dopo la sua morte per un cancro: «La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br da disturbi di qualsiasi genere». L’anonimo, a sostegno delle sue affermazioni, aveva fornito anche elementi utili a rintracciare quello che sarebbe stato il pilota della moto. Fra questi il nome di una donna e l’indirizzo di un negozio di Torino. «Tanto io posso dire – concludeva – sta a voi decidere se saperne di più».
Quella lettera, racconta oggi Rossi, fu inoltrata dal quotidiano alla procura per poi finire casualmente nel febbraio 2011 sulla sua scrivania all’antiterrorismo. Non ha un numero di protocollo e nessuno sembra essersi preso la briga di fare ulteriori accertamenti. Rossi li fa, o almeno così racconta, e in poco tempo identifica il presunto guidatore della Honda di via Fani. Quello che, secondo il racconto fatto da Alessandro Marini agli inquirenti subito dopo l’eccidio (i proiettili esplosi contro di lui avevano colpito il parabrezza del suo motorino), era un giovane di 20-22 anni, molto magro, con il viso lungo e le guance scavate, che a Marini ricordò «l’immagine dell’attore Edoardo De Filippo». Seduto dietro invece, secondo le parole dell’ingegnere che dopo la sua testimonianza ricevette minacce per anni prima di trasferirsi in Svizzera, un uomo con il passamontagna nero che sparò con un mitra (forse la misteriosa ottava arma che avrebbe aperto il fuoco a via Fani) verso di lui perdendo poi il caricatore durante la fuga. Su chi fossero quei due sino ad oggi tante ipotesi (due autonomi romani, uomini della ‘ndrangheta o gente dei servizi, come ipotizzò il pm romano Antonio Marini) e una sola certezza: «non c’entrano con noi», dissero i vertici brigatisti nel corso dei processi.
«Non so bene perché ma questa inchiesta trova subito ostacoli – spiega oggi Rossi – Chiedo di fare riscontri ma non sono accontentato. L’uomo su cui indago ha, regolarmente registrate, due pistole. Una è molto particolare: una Drulov cecoslovacca, pistola da specialisti a canna molto lunga, di precisione. Assomiglia ad una mitraglietta. Per non lasciare cadere tutto nel solito nulla predispongo un controllo amministrativo nell’abitazione. L’uomo si è separato legalmente. Parlo con lui al telefono e mi indica dove è la prima pistola, una Beretta, ma nulla mi dice della seconda. Allora l’accertamento amministrativo diventa perquisizione e in cantina, in un armadio, ricordo, trovammo la pistola Drulov poggiata accanto o sopra una copia dell’edizione straordinaria cellofanata de La Repubblica del 16 marzo». «Nel frattempo – continua Rossi – erano arrivati i carabinieri non si sa bene chiamati da chi. Consegno le due pistole e gli oggetti sequestrati alla Digos di Cuneo. Chiedo subito di interrogare l’uomo che all’epoca vive in Toscana. Autorizzazione negata. Chiedo di periziare le due pistole. Negato. Ho qualche “incomprensione” nel mio ufficio. La situazione si “congela” e non si fa nessun altro passo, che io sappia». «Capisco che è meglio che me ne vada – conclude Rossi che ha deciso di rompere il silenzio su questa storia soltanto oggi – e nell’agosto del 2012 vado in pensione a 56 anni. Tempo dopo, una “voce amica” di cui mi fido m’informa che l’uomo su cui indagavo è morto dopo l’estate del 2012 e che le due armi sono state distrutte senza effettuare le perizie balistiche che avevo consigliato di fare. Ho aspettato mesi. I fatti sono più importanti delle persone e per questo decido di raccontare l’inchiesta “incompiuta”». Una inchiesta che, secondo quanto trapelato, al momento potrebbe essere arrivata alla procura di Roma dove è tutt’ora aperto un fascicolo sul caso Moro.
L’Unità 24.03.14
******
Altre rivelazioni sul caso Moro e il solito depistaggio dei Servizi”, di MIGUEL GOTOR
UNA nuova rivelazione – l’ennesima – cade sul cosiddetto caso Moro, ma non si tratta di un fulmine a ciel sereno. Infatti, ciò avviene alla vigilia dell’istituzione di una nuova Commissione di inchiesta parlamentare sulla tragica vicenda ed è verosimile aspettarsi che altri segnali di questo tipo si susseguiranno nei prossimi mesi.
Con senso di responsabilità e doverosa prudenza bisognerà verificare l’attendibilità di queste informazioni. E, anche in questo caso, siamo sicuri che la magistratura non mancherà di accertarne la fondatezza.
A quanto è dato conoscere ci troviamo davanti a un ispettore di polizia in pensione il quale sostiene che sulla moto Honda presente in via Fani c’erano due agenti segreti al servizio del colonnello dei carabinieri Camillo Guglielmi (effettivamente presente sulla scena dell’agguato pochi minuti dopo il fatto) con il «compito di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere». I due agenti, però, non possono essere ascoltati perché sono entrambi defunti e l’arma che avrebbero utilizzato nella circostanza, seppure ritrovata dal signor Rossi in anni recenti, sarebbe andata nel frattempo distrutta.
La prima sensazione è quella di trovarsi davanti a un classico tentativo di disinformazione che mescola il vero al falso: da un lato, indirizza e sottolinea, invitando i futuri membri della Commissione Moro a concentrare la propria attività sulla presenza di una moto Honda con a bordo due passeggeri non identificati; dall’altro, orienta e depista perché sposta l’attenzione sui servizi segreti nostrani (quelli militari legati al Sismi) potendo contare su un orizzonte d’attesa della pubblica opinione incline alla dietrologia o al più totale scetticismo.
L’impressione è che continui a svolgersi un’annosa battaglia fra reduci e i rispettivi mondi di riferimento: ex agenti dei servizi civili e militari, ex membri dell’Ufficio affari riservati della polizia, ex carabinieri che con i loro ultimi colpi di coda alzano la sabbia sul fondale della grotta dei misteri del “caso Moro”. L’obiettivo è quello di intorbidire le acque, in modo da intrappolare quanti (studiosi, giornalisti, politici, cittadini) ritengono doveroso sul piano civile raggiungere una verità credibile su quella drammatica vicenda.
Proviamo a diradare quel fango, facendo il punto della situazione. A distanza di 36 anni dalla strage di via Fani, il numero di quanti vi parteciparono è incompleto. Da una serie di testimonianze oculari convergenti è possibile dedurre che presero parte all’agguato perlomeno altri due individui, i quali agirono a bordo di una moto Honda di colore blu. Il testimone principale, l’ingegnere Alessandro Marini, che fu a lungo minacciato da telefonate anonime, riuscì a schivare dei colpi sparati dal sellino posteriore della moto che infransero il parabrezza del suo motorino. Anche un poliziotto che passava per caso di lì, Giovanni Intrevedo, confermò di avere visto sfrecciare «una moto di grossa cilindrata con due persone a bordo».
Va ricordato che colui che sedeva dietro il guidatore «assomigliava in modo impressionante a Eduardo De Filippo» e nel dicembre 1978 furono individuati cinque nomi rispondenti a tale caratteristico identikit: un anarchico, un brigatista rosso, un membro delle Unità comuniste combattenti e due militanti appartenenti alla “sinistra rivoluzionaria”.
I capi brigatisti, nonostante l’evidenza dei fatti, hanno sempre smentito la circostanza. Ad esempio, Mario Moretti, riferendosi proprio all’episodio di Marini e senza avvertire il benché minimo imbarazzo, ha potuto dichiarare a Rossana Rossanda e Carla Mosca: «può darsi che un testimone, suggestionato dal clamore dell’avvenimento, riferisca in buona fede qualcosa che magari aveva visto mezz’ora dopo oppure il giorno prima. Non lo so proprio. Di sicuro noi non usiamo nessuna Honda e non c’è nessun compagno a fare il cowboy in motocicletta».
Si presume che i brigatisti siano tuttora mossi dall’intento di non rivelare agli inquirenti i nomi dei due motociclisti, entrambi condannati per tentato omicidio. Ma è pur vero che nel corso degli anni sia Germano Maccari sia Rita Algranati, malgrado fossero sfuggiti alle indagini della magistratura, sono stati denunciati dai loro stessi compagni e condannati a pene durissime che avrebbero altrimenti evitato. Ciò lascerebbe pensare che il muro di omertà riguardante la Honda blu sia ancora oggi particolarmente problematico da rompere, non tanto sul piano dei rapporti personali, ma su quello, ben più delicato, dell’identità politica delle Brigate rosse, ossia delle relazioni intercorrenti tra questa organizzazione e le altre componenti il cosiddetto “partito armato”. La seducente rivelazione del signor Rossi va proprio in questa direzione: chiede di non approfondire questo cruciale aspetto, ancora vivo e condizionante, e consiglia piuttosto di inseguire il fantasma di due agenti segreti defunti, magari sulle struggenti note di una canzone che il grande Eduardo tanto amava: “chi ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato…scurdammoce ’o passato, simmo in Italia paisà”.
La Repubblica 24.03.24