A chi tocca tutelare e promuovere il nostro patrimonio artistico? Lo svuotamento di risorse degli uffici di tutela e le conseguenti disfunzioni hanno fatto venire di moda la diceria che le Soprintendenze sono enti inutili, da eliminare. Quando la nave affonda, tutti se ne accorgono ma nessuno si prende la colpa: si fa prima a cercare un capro espiatorio. Così da una settimana all’altra la patria è salva se si aboliscono le Province, se chiude il Senato, se si smontano i Beni Culturali. Questa voglia di rottamare tutto e tutti, spacciata per moderna, non ha niente di nuovo: è del 1950 un intervento alla Camera del liberale Epicarmo Corbino su «l’enorme discredito» che getta sullo Stato chi dice «se si vuol fare una cosa seria, serviamoci di tutto, tranne che degli organi dello Stato».
L’ultimo libro di Sabino Cassese ( Governare gli italiani. Storia dello Stato), appena pubblicato dal Mulino, offre un lucidissimo sguardo di lungo periodo sul tarlo che rode l’organizzazione della cosa pubblica. Da sempre chi ci governa gonfia l’amministrazione di nuove funzioni e strutture con una mano, con l’altra la delegittima perché lenta, pletorica, inefficace. A lungo la soluzione per snellirla fu di creare aziende autonome (come le Ferrovie dello Stato, 1905) o enti pubblici (come l’Iri, 1933). Questo «processo di fuga dallo Stato» ne diventa, scrive Cassese, «un fattore di disaggregazione». È qui che si è innestato lo slogan di Reagan, «lo Stato non è la soluzione, è il problema»: l’impulso a privatizzare, spacciato per modernissimo, è tutto in questa frase datata 1981.
Ma la politica continua il gioco delle tre carte, delegittima lo Stato per asservirlo a sé: dopo la riforma del pubblico impiego (1993), la dirigenza è stata precarizzata, i concorsi per merito sono l’eccezione e non la regola, la competenza è esiliata, «il vertice amministrativo è composto di persone transeunti». «La politicizzazione del vertice si estende alla periferia, con assunzioni dettate da criteri di patronato politico, non da quello del merito». Si formano, in nome di una “flessibilità” contrabbandata per funzionale, legioni di precari, che impediscono di bandire concorsi e premono per assunzioni ope legis.
Tutto contro la Costituzione (artt. 97-98), secondo cui «il personale pubblico dovrebbe esser retto dal principio di neutralità perché al servizio esclusivo della Nazione»: reclutamenti discrezionali e successive stabilizzazioni sono pertanto «un aggiramento della Costituzione». Lo Stato svaluta se stesso, delega funzioni a terzi e assume non per competenza e merito, ma secondo appartenenze e fedeltà.
Le Soprintendenze ai Beni Culturali, devastate dall’efferato dimezzamento dei bilanci perpetrato dal duo Tremonti-Bondi (2008), fanno solo in parte eccezione: da un lato i livelli dirigenziali sono sottoposti al voto di ubbidienza imposto dalla politica, ma il centro è ipertrofico rispetto agli uffici territoriali su cui pesano le funzioni costituzionali di conoscenza e tutela. Dall’altro, la mancanza di
turn over (età media 57 anni) ha lasciato nelle soprintendenze molti funzionari assunti per competenza e per merito, che talora osano ancora opporsi alle voglie del politico di turno. Perciò spesso chi se la prende con le Soprintendenze o ne reclama l’abolizione non punta su una maggior funzionalità dell’amministrazione, ma su un suo totale asservimento alla politica: questo il senso di ripetute invettive del sindaco di Verona (il leghista Tosi) ma anche del sindaco di Firenze, ora presidente del Consiglio. A una frase di Renzi si ispira un professore di Architettura ( Corriere, 3 marzo), secondo cui le Soprintendenze sono «un intralcio» e vanno soppresse; ma vuole affidarne le funzioni, guarda caso, alle facoltà di Architettura.
Questo il quadro entro il quale con monotone litanie si invoca da vent’anni l’intervento dei privati, inteso come supplenza a uno Stato in ritirata. In una recente intervista, il ministro Franceschini si è mostrato consapevole della differenza fra mecenatismo e sponsorizzazione (che in Italia sfugge ai più), e ha giustamente indicato come modello da seguire l’accordo del Ministero con la Fondazione Packard per gli scavi di Ercolano. “Mecenatismo” è infatti solo la donazione volontaria e senza alcun corrispettivo economico se non (com’è negli Stati Uniti, e dovrebbe essere da noi) qualche vantaggio fiscale. Tutt’altra cosa è la presenza di ditte private che fanno quello che dovrebbe essere il core business dei musei (ricerca conoscitiva, mostre, programmi educativi): al Louvre o al Metropolitan a nessuno verrebbe in mente di appaltare una mostra a un privato. Ma il mecenatismo privato non può funzionare, se non in un quadro garantito da finanziamenti pubblici adeguati, come oggi non è.
Lo ha scritto Eugenio Scalfari in queste pagine (11 novembre 2008): «cultura, ricerca, beni culturali, patrimonio pubblico, paesaggio sono considerati elementi opzionali dei quali si può fare a meno. Ma non si tratta di spese bensì di investimenti che, per loro natura, non possono esser interrotti senza causare nocumento e deperimento gravissimi. (…) La condizione in cui versano da anni le nostre Soprintendenze è quanto di più misero si possa immaginare: personale ridotto al minimo, sedi vacanti da tempo, servizi pressoché inesistenti. (…) Sarebbe necessario chiarire una normativa confusa, fonte di abusi continui che hanno devastato il nostro territorio disseminando mostri architettonici, lasciando deperire monumenti di importanza mondiale, occultando il mare con una cortina edilizia che ne ha confiscato la pubblica fruizione. (…) Da qui l’esigenza di una politica di tutela e di valorizzazione che sia unificata nei poteri e nelle competenze; tale unificazione non può avvenire che in capo allo Stato, il solo che sia depositario di una visione generale». Perciò occorre non solo indicare un modello positivo di mecenatismo, come Franceschini ha già fatto, ma anche tenere a bada il patriottismo for profit di chi investe in beni culturali solo per averne un rientro economico (basterebbe seguire l’ottimo esempio della Francia). Ancor più importante è però tornare almeno ai livelli di investimento pubblico ante 2008 (già allora insufficienti), poiché i contributi privati sono virtuosi solo se si innestano su forti politiche pubbliche. In nome della Costituzione (art. 9), ma anche delle buone pratiche diffuse in tutto il mondo. In questo come in altri settori, il buon funzionamento delle istituzioni non è il problema. È la soluzione.
La Repubblica 24.03.14