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"Ricchi e poveri più lontani", di Laura Matteucci

La ripresa economica «non sarà probabilmente sufficiente » in Italia per porre fine alla profonda crisi sociale e del mercato del lavoro. C’è bisogno di investimenti per «un sistema di protezione sociale più efficace che permetta di evitare che le difficoltà economiche diventino sempre più radicate nella società». Nel rapporto annuale sugli indicatori sociali dell’Ocse, il focus sull’Italia fa emergere, ancora una volta, la gravità delle nostre difficoltà rispetto a quelle degli altri Paesi in esame. Procedere ad investimenti per un welfare più sicuro, dunque, è tra le prime raccomandazioni, per «assicurare supporto ai gruppi più vulnerabili», sostiene l’Ocse, ricordando che «da lungo tempo si dibatte in Italia di un sussidio di disoccupazione universale e di reddito minimo garantito ». Il problema è legato anche al crollo del reddito medio, quantificato in circa 2.400 euro rispetto al 2007, arrivando ad un livello di 16.200 euro pro capite nel 2012. L’Italia, questo il punto, ha sofferto più di tutti la recessione. Nello stesso tempo, infatti, nell’eurozona gli stipendi sono calati di 1.100 euro. Tanto che la percentuale di italiani che dichiara di non avere abbastanza soldi per acquistare cibo è balzata al 13,2% dal 9,5% ante-crisi, contro una media europea dell’11,5%.
DISUGUAGLIANZE MARCATE
«La notevole riduzione dei redditi – spiega l’Ocse – riflette il deterioramento delle condizioni nel mercato del lavoro, in particolare per i giovani». Il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato dal 6% al 12,3%, con un balzo per i giovani ad oltre il 40%. Con un livello del 55%, la percentuale di persone in età lavorativa occupate è la quarta più bassa tra i 34 Paesi dell’Ocse. Tra il 2007 e il 2013, la disoccupazione è aumentata ad un tasso di 5.100 lavoratori per settimana, «e più di un quinto dell’aumento totale della disoccupazione nell’eurozona è dovuto all’Italia». Tra i giovani, allarma anche il livello di Neet (né studenti né occupati): più di 1 su 5 tra i 15 e i 25 anni, un tasso di inattività «più elevato che in Messico e Spagna, e il terzo più alto tra i Paesi dell’Ocse, dopo la Grecia e la Turchia». Nonostante questo, l’Italia ha una spesa di circa un terzo inferiore alla media europea e Ocse per trasferimenti sociali ai cittadini (assegni di disoccupazione o sussidi alle famiglie). Allo stesso modo, la spesa per servizi quali corsi di formazione e assistenza nel cercare lavoro, è circa la metà della media europea e Ocse, e si è ridotta ulteriormente tra il 2007 e il 2009. E i giovani non hanno diritto ad alcun sussidio né servizio. Il loro ritardo nel guadagnare la propria indipendenza «contribuisce al notevole ritardo nella formazione dei nuclei famigliari»: il tasso di fertilità rimane a 1,4 figli per donna, ben al di sotto del numero di figli necessario a mantenere costante il livello della popolazione, pari a 2,1 per donna. Inoltre, con meno di tre persone in età lavorativa per ogni adulto over 65, l’Italia ha il secondo più basso tasso di sostegno tra i Paesi Ocse e molto al di sotto della media, 4,2 lavoratori per anziano.
Anche l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, come già la Germania di Angela Merkel, appoggia i primi passi su lavoro e fisco del governo Renzi, ma avverte che il Paese ha «urgente bisogno di riforme» per un sistema previdenziale impreparato ad affrontare le conseguenze della crisi. Il problema è complesso: l’Italia è entrata nella crisi finanziaria con un sistema di previdenza scarsamente preparato ad affrontare un forte aumento della disoccupazione, soprattutto di lungo periodo, e della povertà. Meno di 4 disoccupati su 10 ricevono un sussidio di disoccupazione e l’Italia è il solo Paese Ue assieme alla Grecia privo di un comprensivo sistema nazionale di sussidi per gruppi a basso reddito. Le famiglie più abbienti hanno maggior accesso ai benefici dal sistema di protezione sociale rispetto ad ogni altro Paese in Europa. E il rischio è la radicalizzazione delle disuguaglianze. «Con una diminuzione nei redditi del 12% in totale tra il 2008 e il 2010, il 10% più svantaggiato della popolazione ha subito perdite molto superiori rispetto al 10% più ricco, per il quale la perdita è stata pari al 2%».

L’Unità 19.03.14