È accaduto a Milano, all’Albe Steiner, un istituto tecnico sperimentale modello. Celebre non solo per l’insegnamento delle arti multimediali, ma anche per l’accoglienza riservata ai disabili. Eppure è proprio in quest’istituto modello che è scoppiata la polemica per la “presenza ingombrante” di una ragazza “diversamente abile” — come si dice oggi utilizzando una di quelle espressioni che dovrebbero facilitare l’inclusione dei “diversi” e che, però, finiscono spesso con il generare malintesi, banalizzando la sofferenza di chi queste differenze le vive quotidianamente. Alcuni ragazzi si sarebbero lamentati della compagna considerandola un “peso”. Alcuni genitori, invece di mostrarsi solidali con chi si batte affinché la figlia possa avere le stesse
chance degli altri, avrebbero rinfacciato alla madre di non avere iscritto la ragazza in un istituto specializzato. E il tutto perché? Per la presunta cancellazione di gite scolastiche che avrebbero, di fatto, escluso la ragazza. Come se il pattinaggio o l’equitazione valessero la discriminazione di una persona.
Per i propri figli, tutti i genitori vogliono il “meglio”. Lo sappiamo tutti. Lo approviamo tutti. Come si potrebbe d’altronde non volere e non pretendere il meglio? Perché accontentarsi? Perché rinunciare? Peccato che il “meglio” lo si faccia troppo frequentemente coincidere con il “più”, trascurando a volte il positivo del “meno”. Meno attività. Meno frenesia. Meno accumulazione di cose da imparare, fare, sperimentare, buttare via. Meno pretese, in fondo. Anche per permettere ai più giovani di capire il significato dell’impossibilità del “volere tutto” e “ottenere tutto”. Che, poi, è il senso della vita. Quella reale. Quella piena di difficoltà e ostacoli. Quella che si riesce ad attraversare quasi indenni, solo quando si ha la possibilità di sperimentare l’esistenza dei limiti e delle differenze.
Il problema della ragazza disabile che viene accusata dai propri compagni di ostacolare le proprie attività — e dei genitori che, assecondandone le lamentele, accusano insegnanti e scuola di privare i propri figli di tutta una serie di opportunità — non è una questione che riguarda solo i disabili e le loro associazioni, ma tutti. Non è in gioco solo la sofferenza profonda di quella madre che si batte quotidianamente per far vivere alla propria bambina una vita che sia il più “normale” possibile o il dramma di quella ragazza che si vede esclusa solo perché disabile. È in gioco anche e soprattutto il futuro di una società che, oggi più che mai, ha bisogno di riscrivere le regole del vivere-insieme.
Una società che si è nutrita per anni di un’ideologia ultra-individualistica e competitiva che ci ha spinto a credere che l’unico modo per emergere e dare un senso alla propria vita fosse quello di battersi sempre contro tutti, schiacciando i più fragili e mostrando di essere i più forti e i più determinati. Una società che oggi sta facendo i conti con i risultati di questo “egoismo assoluto” che, dopo aver cercato di cancellare ogni forma di solidarietà e di cooperazione, si rende conto di non essere più in grado di andare avanti. Perché coloro che ci si è persi per strada sono troppi, e adesso chiedono il conto di quell’esclusione. E anche chi sembra avercela fatta, paga poi a livello esistenziale il peso del proprio successo. Anche semplicemente perché, come spiegava Georges Canguilhem, quelle che da un punto di vista sociale vengono considerate delle “riuscite”, sono poi spesso dei “fallimenti ritardati”.
La scuola non serve solo a far acquisire competenze. Anzi. Le competenze vanno e vengono, soprattutto quando non si fondano su una maturazione più generale e più profonda. Fatta non solo di spirito critico, che pure è estremamente importante, ma anche di consapevolezza dei propri limiti e delle proprie fragilità. La scuola serve a far crescere e a far capire il senso del proprio “essere-al-mondo”. Serve ad aprirsi alle differenze, imparando pian piano ad accoglierle. Serve a rendersi conto che, nella vita, nessuno può “avere tutto” ed “essere tutto” e ci sarà sempre qualcosa che ci mancherà: una caratteristica, una qualità, un posto di lavoro, una relazione sentimentale, un figlio.
Avremo tutti i nostri problemi e le nostre sofferenze. Le nostre differenze e i nostri handicap. Tutti “diversamente abili” per un motivo o per un altro. Sperando che queste varie disabilità non ci escludano dal vivere-insieme. Come scriveva Oscar Wilde, però, «le cose vere della vita non si studiano né si imparano, ma si incontrano». Come una ragazza disabile nella propria classe.
La Repubblica 28.02.14