C’è silenzio, a Bagnoli. Un silenzio strano, ovattato. L’autobus bianco spegne i motori dopo aver portato gli studenti a una mostra sul cervello. I gabbiani volteggiano senza emettere alcun suono. E anche il traffico di via Coroglio, una cacofonia di clacson e marce tirate, è un’eco che resta al di là del muro di cinta. Dentro, davanti al mare, si sentono solo i rumori di ciò che calpestano le suole delle scarpe: il crepitìo dei vetri rotti, lo scricchiolìo delle travi di legno bruciate, lo scrocchio dei mattoni sbriciolati, lo stridìo delle lamiere accartocciate. Ogni oggetto ha un suono, qui. E quei suoni raccontano ciò che accadde a Città della Scienza la sera del 4 marzo di un anno fa. Ché il rumore si fa immagine, e ti sembra quasi di vederli quei vetri che esplodono per le otto bombe, le travi di legno che vengono giù dal tetto, i mattoni che iniziano a sfarinarsi, gli exhibit che si fondono per il calore. Lo Science center, il cuore dell’evoluzione e della tecnologia, un anno dopo è ancora lì. Una montagna alta quattro metri di travi, laterizi, tubi, pilastri. Era il simbolo della Napoli del progresso, è stato raso al suolo dalla prima invenzione dell’uomo, il fuoco.
«Armi di distruzione contro la cultura». Vincenzo Lipardi, consigliere delegato di Città della Scienza, chiama così le bombe che incendiarono la struttura con violenza e rapidità tali da rendere vano il pur durissimo sforzo dei vigili del fuoco. Il suo ufficio affaccia sulla cupola argentea del nuovo planetario e su «Corporea», il museo del corpo umano che è l’emblema di questa storia alla rovescia. Doveva essere l’ultimo tassello di Città della Scienza, dopo che — tra polemiche e ritardi — nel 2010 erano stati bloccati i fondi necessari alla sua realizzazione. Sarà, invece, il primo tassello della ricostruzione. Davanti a quell’edificio seminascosto dalle impalcature — guardando verso Capo Miseno tra una gru gialla che svetta immobile e la vecchia ciminiera diventata faro — Lipardi ricorda il suo 4 marzo. «Avevo portato mio figlio al cinema, eravamo andati a vedere Il principe abusivo. Quando siamo tornati, mi disse che c’era un fuoco. Pensavo a un falò o chissà che. Arrivato qui, invece, ho trovato l’inferno». La buca d’accesso a quell’inferno è quattro piani più sotto. Ci si arriva attraversando la strada e varcando l’ingresso di quella che un tempo fu la «Fabbrica interconsorziale di concimi», sette ettari all’interno dei quali si producevano fertilizzanti, il primo insediamento industriale impiantato nell’area quando correva il 1850. Caschetto giallo di protezione in testa, si accede scortati da un addetto alla vigilanza. E subito dietro la rete coperta da un telo verde — al di là di un tavolino, una sedia per bimbi e un cesto di pennarelli colorati che spiccano per l’innaturalezza — si staglia un panorama post-bellico. Era l’ingresso dello Science center. Varcarlo oggi è un po’ come entrare a Mostar. Anche il mare, visto attraverso le grandi finestre in frantumi, sembra voler somigliare alla Neretva, il fiume reso tristemente famoso dalla guerra nell’ex Jugoslavia. Le macerie, invece, sono identiche. Bombe sull’Erzegovina, bombe su questa fetta di città. Non è rimasto nulla, e sarà per questo che a Cristina Basso, addetta stampa di Città della Scienza, ancora vengono gli occhi lucidi quando entra qui dentro.
Il fuoco non ha risparmiato nulla. Anzi, una cosa sì: il planetario. Visto da fuori, sembra praticamente intatto. È una costruzione a forma di cupola, e il calore ha fatto sì che all’interno si conservasse tutto intatto, come una moderna Pompei. Peccato che i macchinari siano andati completamente distrutti. Bruciati, come la telecamera che controllava l’accesso alla struttura dalla spiaggia, stranamente l’unica che sia stata messa fuori uso. Il resto è un ammasso informe di calcinacci, mattoni, travi di legno, pezzi d’acciaio. Un estintore rosso è ancora a terra tra le sedie e i tavolini ribaltati, i computer negli uffici sono fusi, gli uccelli impagliati conservati nei depositi hanno gli occhi vitrei, quasi li avessero sbarrati davanti a tutto quest’orrore. Non hanno resistito neppure i vetri antiproiettile che facevano nello stesso tempo da sfondo e cornice: li avevano messi perché pensavano di doversi difendere dagli scugnizzi di Coroglio che si divertivano a romperli lanciando sassi. Le bombe, quelle proprio non le avevano previste. Oltre ai rumori, c’è un’altra cosa che colpisce in questo scenario di devastazione. I colori. Sono solo due, il nero delle strutture bruciate e il marrone dell’acciaio arrugginito. Una monotonia cromatica sullo sfondo della quale spicca — manco fosse una scena di Schindler’s list — il rosso vivo del maniglione antipanico della porta dalla quale sono entrati gli attentatori. Poco più in là, c’è la spiaggia oggetto della contesa con il Comune. La si immaginava come una grande scenografia con sdraio e ombrelloni, è una lingua di terra piena di scogli tra i quali hanno gettato la ruota di un camion, una sedia di plastica bianca e una bottiglia di detersivo azzurra. Eppure, appena un anno fa, Città della Scienza era la speranza di Bagnoli. E forse lo è ancora, in un quartiere passato dall’illusione della città-fabbrica immaginata da Francesco Saverio Nitti al miraggio della città albergo sognata dal sindaco Nicola Amore. Oggi non c’è né l’una né l’altra: l’Italsider ha chiuso, del grande parco urbano è rimasto solo un progetto ingiallito nel tempo. Quel museo del futuro, adesso, si candida a (ri)diventare l’attrattore di una zona atomizzata. Una shrinking city, insomma. Una di quelle città che perdono pezzi, si restringono. E forse è per questo che — letto da Mariangela Contursi, economista, la donna che si occupa di far nascere e crescere le imprese a Città della Scienza — quell’incendio, nella sua drammaticità, «è stato utile, ché da quel giorno almeno s’è rimesso in moto il dibattito sull’area. Sono arrivata qui nel ’96, e da allora ho visto show per demolire le ciminiere, una bonifica la cui qualità viene messa in discussione dai magistrati, aste deserte, opere che si fermano fino all’ultimo miglio: questa è stata Bagnoli fino ad oggi».
Quel che sarà, invece, passa anche per la ricostruzione della Città della Scienza. La solidarietà, per una volta, ha funzionato davvero. Quattrocentomila persone hanno deciso di fare una donazione, e fino ad ora è stato raccolto un milione e 200 mila euro. Il premio Nobel Carlo Rubbia ha creato un comitato per la ricostruzione cui hanno aderito, tra gli altri, Claudio Abbado, Renzo Piano e David Gross. S’è mobilitata anche Firenze, con un concerto al teatro Puccini. Il 4 marzo, a Città della Scienza, verrà firmato l’accordo di programma: 65 milioni di euro per ricostruire tutto entro il 31 dicembre 2016. «Nessuna commemorazione, sarà una festa perché torniamo alla vita». Sarà un caso, ma Vincenzo Lipardi lo dice mentre l’autobus riaccende il motore, gli studenti escono dalla mostra tra schiamazzi di gioia, i clacson delle auto che passano davanti ai cancelli dell’Italsider tornano a farsi sentire. Andando via, poco prima di quella rete verde che separa il passato dal futuro, un Albert Einstein affisso al muro sembra sorvegliare la scena. È l’unico superstite dell’incendio. E il plexigas dietro al quale è custodita la sua foto non solo ha protetto dal fuoco l’immagine, ma ha anche custodito la sua frase: «Non preoccupatevi dei vostri problemi con la matematica. Vi assicuro che i miei sono molto più grandi».
da Il Corriere del Mezzogiorno 25.02.14