Nella sala riunioni di un istituto internazionale che valuta i «rischi-paese» per le aziende globali che investono all’estero, a New York, si è esaminata 48 ore fa la situazione italiana dopo la staffetta Letta-Renzi. Prima di dirvi qual è stato il giudizio finale degli studiosi sulla nostra nazione, voglio raccontarvi di che cosa «non» hanno parlato gli analisti.
Il look di «Matteo», il chiodo, le camicie bianche, il tifo per la «Fiore», lo streaming con Grillo, andare in giro senza scorta, il gossip popolare, il petulante Totoministri, non sono stati citati. Sia governata da un maturo economista come Monti, un tecnocrate come Letta o un giovane ex sindaco come Renzi, l’Italia non impressiona mercati e cancellerie per l’anagrafe o le personalità. I dati che passavano crudi sono Pil, disoccupazione, produttività, tempi della giustizia, mercato del lavoro vischioso, corruzione, burocrazia, tasse elevate, debito pubblico, scuola e ricerca dietro la media europea, Sud, digital gap, frammentazione politica in Parlamento.
È un gran bene che, con Matteo Renzi, una nuova generazione prenda il potere in Italia. Si devono assumere decisioni che condizioneranno la vita dei nati dopo il 1975, ed è opportuno che lo faccia chi ne subirà le conseguenze. Il nostro paese è avvitato a favore degli anziani contro i ragazzi, degli occupati contro chi non ha un lavoro, di chi ha connessioni personali, familiari, di lobby, politica o professione con la classe dirigente contro chi invece è un outsider senza raccomandazioni. Che queste ingiustizie vengano corrette, che il paese sia leale, con regole e senza trucchi, è auspicabile.
Renzi ha rotto due tabù a sinistra. Non crede che la Repubblica si fondi su «Viva o Abbasso» Berlusconi («niente viva, niente abbasso» dice un bellissimo racconto di Elio Vittorini), non considera gli elettori del centrodestra marchiati dalle loro idee, anzi li invita apertamente a unirsi nelle urne al centro sinistra, da pari a pari. E non segue, né nei modi, né nel linguaggio, lo stantio galateo dei mandarini da talk show. I suoi comizi sono performances, battute, scherzi, il pubblico, spesso composto da suoi coetanei, ride divertito. Le due novità, frutto della cultura e della storia di Renzi, lo hanno fatto molto criticare, ma alla fine gli hanno consegnato la guida di un Pd smarrito e incerto. Renzi è il primo leader di una sinistra post-berlusconiana, con nuove visioni e idiosincrasie.
Ma l’intera avventura politica di Matteo Renzi si arenerà se lui stesso, o il suo staff, dal raziocinante Del Rio, al blogger Sensi, alla cerebrale Boschi, finiranno per credere alla loro propaganda: che cioè basti non balbettare nell’antico politichese da «militanti severi» della ballata di Guccini, per creare lavoro e far crescere il Pil. I guai italiani, i numeri dell’economia, se ne infischiano della data di nascita del premier, di camicie, «Chi?» e parlantina. Sono scomodi, irriducibili. Ridicole gaffes come denunciare le agenzie di rating perché non considerano il nostro patrimonio culturale ci fan ridere dietro, sembriamo la vecchia aristocratica di La Grande Bellezzadi Sorrentino, che rimpiange la nobile culla dove riposava da bambina, ora diventata esca per turisti chiassosi. Il mondo giudicherà Renzi dalle riforme. Quelle che Thatcher e Blair, Reagan e Clinton, Schroeder e Merkel, leader conservatori e progressisti, hanno creato e difeso nei loro paesi. Non da altro.
Le riforme economiche sono invocate dagli esperti, ma alla prova dei fatti gli italiani arretrano davanti al salto, esausti per la crisi e le tasse, nostalgici per gli anni dorati del boom. Grillo e i suoi paladini danno la colpa della paralisi economica alla «Politica», autoassolvendo così cittadini e ordini professionali, manager e sindacalisti, imprese e burocrazie, clan accademici e intellettuali, la ragnatela dello status quo che detesta meritocrazia, trasparenza, impegno. Renzi non troverà applausi quando dovrà chiedere ai cittadini di lavorare, o studiare, più e meglio, tagliare la spesa, ridurre i sussidi a imprese, enti, istituzioni, evitare gli sprechi. Dovrà vivere di maggioranze precarie, prendere posizioni impopolari, con la forza del riformista che mai Berlusconi ha voluto impugnare.
Non sarà una passeggiata, slalom allegro tra tweet e blog, non ce la caveremo con battute toscane, sorrisi accattivanti. Servono sudore e lavoro, strategia, impegno, studi, tenacia, coraggio. I partner europei ci daranno una mano sul benedetto 3%, a patto di vedere che siamo seri nella ricostruzione economica, come Spagna e Grecia, più della malmostosa Francia. Ma sconti non ne faranno. Gli investitori internazionali torneranno se l’Italia sarà trasparente e non corrotta, altrimenti se ne andranno altrove, incuranti dei picchetti in strada e dei tanti editoriali di casa nostra contro Wall Street.
Come se non bastasse servirà che l’Italia dica la sua a testa alta sull’India e l’intollerabile vicenda dei sottufficiali detenuti, che parli sulle violenze in Ucraina e Venezuela, che sia protagonista sulla trattativa in Siria e Iran, insomma ritorni paese degno del suo nome.
Renzi non cambi condotta e personalità, anche volendo non potrebbe. Ma prenda atto, con il suo governo, che non va in gita scolastica, corre una maratona defatigante. Gli analisti del think tank americano non hanno dato un parere favorevole al nostro paese, «Manca in Parlamento una maggioranza per le riforme economiche, dopo Monti e Letta anche Renzi fallirà». Lo stallo tra Pd, Berlusconi e Grillo è visto come cronico, l’outlook, la previsione per noi, non è positiva. Tocca adesso a Renzi dar loro torto: ha dimostrato di amare il rischio come candidato, continui a rischiare da leader. Si esponga sulle riforme e parli chiaro – come sa fare – all’opinione pubblica. Si stupirà, e con lui gli analisti Usa, di quante persone serie e perbene, capaci di scommettere nel futuro, ci siano in Italia, nate tra il 1975 e il 2000 ma anche più indietro, fino agli Anni Venti del secolo scorso. Se non azzarda, è perduto.
La Stampa 20.02.14