«Non mi farò imbrigliare, io tiro dritto», avverte Matteo Renzi e questa sfida incrina le sicurezze di chi era convinto di poter facilmente condizionare la genesi del nuovo governo con un gioco di pressioni, raccomandazioni e interdizioni. Stamattina il premier in pectore avrà l’incarico da Giorgio Napolitano. E tra mercoledì e giovedì, quando dovrebbe sciogliere la riserva, si vedrà se sarà riuscito a mantenere quanto ha detto o se i negoziatori ufficiali (Alfano e non solo) e i frenatori occulti (l’ala sinistra del Pd, tra gli altri) lo avranno condizionato su un compromesso al ribasso rispetto alla promessa che «la rivoluzione partirà», trascinando anche lui nella palude.
Fermo restando che lo schema dell’alleanza non dovrebbe cambiare, se non altro perché dalle consultazioni non sono emerse alternative, la partita si giocherà su programma e ministri. Due versanti critici sui quali il capo dello Stato si concederà solo dei consigli generali, di metodo, che del resto ha già fatto conoscere. Per lui serve in primo luogo un accordo stretto, concordato punto per punto fra i partner, in cui si tengano insieme le riforme — in primis la legge elettorale — e le misure per agguantare la ripresa. E serve poi che la squadra dell’esecutivo sia composta da personalità autorevoli e, per certi ministeri come l’Economia, con una reputazione tale da trovare immediata credibilità nei fori europei sui quali il Paese resta ancora sotto sorveglianza. Cioè: l’Ue, la Banca centrale, il Fondo monetario.
La sua «assistenza» si ferma qui. Infatti, anche se l’articolo 92 della Costituzione gli attribuisce la prerogativa di «nomina» dei ministri che gli vengono “proposti” dal presidente del Consiglio — un potere quasi, ma non proprio, duale — nomi non ne farà. Questo esecutivo, infatti, non reca il sigillo del Quirinale, come invece è stato per quelli di Monti e Letta, sui quali a tratti è parsa evidente una forma di «patronage». Lo si è visto sia con certe coordinate tematiche rilanciate a più riprese dal Colle (basta pensare all’insistenza sui dossier del lavoro, dei giovani, della ricerca, delle carceri), sia con qualche suggerimento sull’identikit ideale dei titolari di alcuni dicasteri delicati.
Napolitano potrebbe, questo sì, sollevare dubbi se gli arrivasse sul tavolo qualche candidatura chiaramente inadeguata o indigeribile (vale la pena di ripeterlo: è successo a Scalfaro quando Berlusconi pretendeva che il suo avvocato, Previti, diventasse ministro della Giustizia). L’eventuale intervento inibitorio del Quirinale dovrebbe però limitarsi a situazioni che si profilino al limite della costituzionalità, perché la responsabilità finale delle scelte ricade su chi le propone. Per restare all’Economia, dossier caldissimo: meglio un politico con vasta esperienza internazionale su questa materia? Oppure può fare meglio un tecnico della new generation, magari uscito da un ufficio studi? O chi altro? Quale peso dare all’allarme fatto scattare poche ore fa da Fabrizio Saccomanni: «Attenti a cambiare passo, il rischio è che ci si fermi»?
Da oggi tocca a Renzi assumersi il rischio di sciogliere questi nodi. Date le fibrillazioni in corso tra i partner della vecchia/nuova maggioranza, dati i sospetti reciproci da dissolvere, date alcune «resistenze di paura» che si sono subito profilate, nessuno lo incalzerà perché chiuda di corsa. Può prendersi tutto il tempo di cui ha bisogno, dopo aver ricevuto l’incarico. Per il presidente della Repubblica l’importante è che — come ha auspicato durante i colloqui — si riescano a fissare convergenze dettagliate ed equilibri programmatici come li si può concordare solo siglando un’intesa non frettolosa.
Il fallimento non è contemplato. Non ci sono soluzioni di riserva. Napolitano l’ha fatto capire in ogni maniera, prima di chiudersi ieri in una pausa di riflessione. Insomma: resterebbe unicamente un ritorno alle urne. Il che, con il relitto di sistema elettorale sopravvissuto alla bocciatura del Porcellum venuta dalla Consulta, garantirebbe una catastrofica ingovernabilità.
Il Corriere della Sera 17.02.14