Secondo il rapporto Istat «Noi Italia, 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo» nel 2011 una famiglia italiana su quattro era in una situazione di «deprivazione»(ovvero aveva almeno tre dei nove indici di disagio economico come, per esempio, non poter sostenere spese impreviste, arretrati nei pagamenti o un pasto proteico ogni due giorni). Si tratta di un’ulteriore conferma di un problema generale di particolare gravità, quello della crescente disuguaglianza sia nelle diverse società nazionali, sia a livello dell’intero mondo. Per quanto riguarda il nostro Paese, anche l’analisi della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie nel 2012 mostra disuguaglianza in aumento: il 10% delle famiglie più ricche possiede il 46,6% della ricchezza netta (ovvero la somma delle attività reali, ossia immobili, aziende e oggetti di valore; e attività finanziarie, dunque depositi, titoli di Stato, azioni, eccetera), mentre l’indice Gini di concentrazione della ricchezza ha raggiunto il 64%, in aumento rispetto al 60,7% del 2008. Quanto alla situazione mondiale, basti citare il rapporto dell’Oxfam da poco discusso al World Economic Forum di Davos: lo 0,7% della popolazione mondiale (32 milioni di persone) possiede il 41% della ricchezza, il 7,7% una percentuale di ricchezza più o meno equivalente a quella del primo gruppo (42,3%), al 22,9% spetta il 13,7% della ricchezza, mentre alla grande maggioranza della popolazione (il 68,7%) rimane solo il 3% residuo.
Il processo di aumento delle disuguaglianze di ricchezza e reddito è generale. Si verifica nei grandi Paesi emergenti, sia in società già fortemente diseguali — come quella indiana, o brasiliana, o nigeriana — sia in società un tempo più egualitarie, come la cinese o l’indonesiana.
Ciò non sorprende: diverse ricerche comparative sui processi di modernizzazione mostrano un incremento delle disuguaglianze nelle prime fasi dello sviluppo economico e una successiva diminuzione in virtù di condizioni favorevoli, come l’industrializzazione, la crescita delle classi medie, lo sviluppo dell’istruzione, l’attuazione del welfare state e di politiche ridistributive.
Nel mondo contemporaneo in realtà le diseguaglianze stanno aumentando sensibilmente anche nei Paesi sviluppati. Dopo i «trent’anni gloriosi», dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni Settanta, in cui una certa ridistribuzione dei redditi è stata favorita da politiche socio-economiche riassumibili nella formula Keynes at home and Smith abroad (Keynes a casa e Smith all’estero), ovvero politiche anticicliche e di welfare in sede domestica e liberalizzazione degli scambi in ambito internazionale, nei successivi tre-quattro decenni — quelli della globalizzazione — si sono sì create le condizioni per l’emersione dalla povertà di centinaia di milioni di cinesi e indiani ma, d’altro lato, sono fortemente aumentate le disuguaglianze nella grande maggioranza sia dei Paesi sviluppati sia di quelli in via di sviluppo.
Una distribuzione fortemente disuguale del reddito e della ricchezza tra classi sociali, generi, generazioni, gruppi etnici minaccia la crescita economica, la coesione sociale e la stabilità politica dei Paesi in cui si verifica. In primo luogo, un aumento dei consumi da parte di una ristretta minoranza di super-ricchi, per quanto possano accrescere la loro propensione all’acquisto di beni e servizi, non riuscirà mai a compensare la contrazione della domanda determinata da un impoverimento relativo di una assai più ampia classe media, e impedirà il ciclo virtuoso rappresentato dall’aumento dei salari e della produttività con conseguente crescita della domanda di beni e servizi e ulteriore sviluppo della produzione. Inoltre, la percezione di disuguaglianze eccessive — sia all’interno di una stessa organizzazione ( in cui il reddito di alti dirigenti è centinaia di volte il salario medio dei dipendenti), sia tra tipi di lavoro (come nel caso della retribuzione di un medico ospedaliero, pari a una frazione di quella di un consulente finanziario o un consigliere regionale), sia tra gruppi che ricevono remunerazioni diverse per lo stesso tipo di lavoro (donne rispetto a uomini) — viola il fondamentale principio di equità nei rapporti sociali, incrina il patto di cittadinanza, ovvero la solidarietà e la collaborazione che rendono possibile la società, e mette a rischio la stessa tenuta democratica perché favorisce le oligarchie del denaro e del potere, il clientelismo e la corruzione. Come scrive Rousseau, infatti, in una società democratica «nessun cittadino deve essere tanto ricco da poterne comprare un altro e nessuno tanto povero da essere costretto a vendersi».
da Il Corriere della Sera