L’idea che di fronte a una situazione in bilico un capo dello Stato sondi la possibilità di governi alternativi non deve scandalizzare, ma paradossalmente rassicurare. E il fatto che Mario Monti fu contattato per Palazzo Chigi anche quando al Quirinale c’era Carlo Azeglio Ciampi, quindi prima di Giorgio Napolitano, rappresenta una conferma: che l’Italia da tempo aveva coalizioni scelte a furor di popolo, eppure in costante affanno e incapaci di rispettare gli impegni presi con l’elettorato e l’Unione Europea; e che, agli occhi delle istituzioni italiane e continentali, a torto o a ragione, Monti era visto come una garanzia per arginare la speculazione finanziaria all’attacco del Paese.
Sulla parentesi successiva del Professore che ha voluto far politica è meglio non addentrarsi. Bisognerebbe invece tornare ai mesi un po’ lunari nei quali esisteva un governo guidato da Silvio Berlusconi, che la comunità internazionale non riteneva credibile. Tra l’altro, a quei tempi la Lega era in rotta di collisione sulla riforma delle pensioni. La maggioranza parlamentare si reggeva in piedi con la colla di pochi voti raccattati qui e là. E, soprattutto, con i mercati in ebollizione l’esposizione debitoria stava avvicinando rapidamente l’Italia al collasso.
Senza tenere a mente questo sfondo non è possibile analizzare le mosse di Napolitano di allora; e forse neanche le più recenti. La tesi, cara a una parte del centrodestra e, di colpo, a una filiera trasversale di avversari del Quirinale, secondo la quale quel governo fu vittima di un complotto, è comprensibile: permette di scaricare all’esterno le convulsioni e l’epilogo di una fase da dimenticare. Ma suona piuttosto singolare: anche perché, se ci fosse stata congiura, Berlusconi non l’avrebbe consentita. Rileggere in modo strumentale alcuni episodi avvenuti in quei mesi non basta a restituire credibilità al complotto; né a mettere sotto tiro il presidente della Repubblica .
Le reazioni dimostrano piuttosto l’avvelenamento delle relazioni politiche; l’incapacità, da parte di molti, di leggere con lenti oggettive quanto è accaduto; e la tendenza sempre più diffusa a usare il Quirinale come parafulmine di vicende nelle quali ha svolto un ruolo obbligato. Altrimenti, non si spiega nemmeno perché sia stato Berlusconi il primo a chiedere al capo dello Stato di ricandidarsi di fronte a un Parlamento lacerato: nel 2013, e cioè due anni dopo il presunto «complotto» che si cerca implicitamente di accreditare.
Non si può escludere nemmeno che l’obiettivo sia proprio il secondo settennato al Quirinale: magari sfruttando la richiesta di messa in stato d’accusa di Napolitano, avanzata dal movimento di Beppe Grillo. Ma per il momento, l’unico vero «golpe» sembra essere quello involontario di una politica alla ricerca eterna di scorciatoie e scaricabarile. Il rischio non è che un presidente della Repubblica pensi a come rimediare agli errori e ai limiti di un governo. Il vero pericolo è che anche questa possibilità si esaurisca, e il «dopo» sia disegnato e deciso direttamente dagli esponenti di un potere sovranazionale dal quale, piaccia o no, l’Italia non può prescindere.
da Il Corriere della Sera