Professore Romano Prodi, la Consulta tedesca ha rinunciato a decidere sulla legittimità dello scudo della Bce, cioè sull`acquisto dei titoli di Stato dei paesi indebitati, e ha rinviato gli atti alla Corte di giustizia europea. È una svolta?
«Una svolta non so, ma una decisione inaspettatamente positiva sì. E mi ha fatto piacere che sia venuta da una Corte tanto influente quanto venerata in Germania. La quale, rinunciando a deliberare su una controversia sovranazionale, riconosce che c`è un giudice in Lussemburgo, cioè in Europa, e non solo a Berlino. Di questi tempi, non è poco».
E una tregua concessa dalla tecnocrazia alla politica?
«Lo vedremo più in là, ma certo il rinvio a una giurisdizione superiore è indirettamente una manifestazione di riconoscimento politico dell`entità che la sostiene, cioè l`Europa».
Nel merito è anche un modo di riconoscere l`autonomia della Bce?
«Nel merito deciderà la Corte europea, ma il messaggio politico di questo rinvio è chiaro e positivo».
Che vuol dire? Che, dopo gli appelli di Giorgio Napolitano al Parlamento di Strasburgo e di intellettuali come Jurgen Habermas sui giornali, alla vigilia delle elezioni la voce dell`Europa torna a farsi sentire?
«Non mi pare. Perché la voce dell`Europa torni a parlare in concreto agli europei bisogna che cambi la politica. Non vedo per ora nessun mutamento di sostanza. Il messaggio che continua a passare è un altro. Io sono ancora indispensabile per il vostro futuro – dice oggi l`Europa ai cittadini, o almeno questi così intendono -, ma gli interessi politici dei paesi periferici non sono presi in considerazione, poiché non c`è un equilibrio tra le diverse anime ma una forza che prevale sulle altre, e questa forza si chiama Germania. Una sentenza interessante non smuove gli elettori, senza una politica che li aiuti nelle loro difficoltà. Ci vuole ben altro».
Dobbiamo aspettarci un boom del populismo nelle urne di maggio?
«Il populismo è il termometro del disagio, questo è chiaro. Bisognerebbe iniziare a chiedersi perché esso si è infiltrato in tutte le democrazie europee tranne una. La Merkel lo ha spento, ma a quale prezzo?
Quello di dire: cari elettori, io faccio i vostri interessi, mai un euro a questi latini un po` lazzaroni e un po` truffaldini. Una semplificazione un po`ardita, non le pare?».
Ma non sarà una semplificazione, o una scorciatoia troppo corta verso il bipolarismo, anche la legge elettorale in cottura nei forni italiani?
«Non lo so, però io sono stato sempre per un sistema bipolare, come quello francese. E resto convinto che un Paese frammentato come l`Italia lo si può guarire solo obbligando i partiti ad accordarsi».
Anche se per prendere la maggioranza dei seggi basta il 37 per cento dei voti?
«Non voglio entrare in questi dettagli. Dico solo che il doppio turno è uno strumento di democrazia e di coesione da promuovere».
Ma in un Paese dove sono implose coalizioni che avevano 370 deputati in Parlamento il concime dell`unità risiede nel disegno di una scheda elettorale?
«Certo che no. Potrei rispondere guardando alla nostra storia divisiva e troverei molti esempi e ragioni valide. Le alleanze coese e le stesse grandi coalizioni funzionano quando i progetti si sono, per così dire, omogeneizzati. Non per nulla in Germania, dove la distanza tra le forze politiche rivali è molto inferiore che in Italia, hanno discusso mesi per fare un programma comune. Oggi sappiamo che le larghe intese sono da noi pressoché impossibili. E abbiamo il dovere di rimediare a uno sfarinamento che ci sta di fronte. Lo strumento della legge elettorale non è esaustivo ma può servire. Soprattutto se elimina il rischio della governabilità in una delle due Camere. Perciò ritengo che sia molto utile il collegamento tra legge elettorale e riforma del Senato».
È il programma di Renzi?
«È il programma di uno che l`instabilità del Senato l`ha pagata sulla sua pelle, politicamente parlando. Il bicameralismo perfetto era frutto della paura del ritorno al Fascismo, ma quella era un`Italia che usciva dalla guerra. Già nel `48 si era capito che le due Camere con funzioni parallele potevano dar vita a un parlamentarismo malato».
Darebbe un consiglio a Letta e a Renzi per non bruciarsi in questa transizione?
«A Letta dico in modo affettuoso che deve fare uno scatto, deve rischiare di più. Perché in questo momento la mediazione non paga più».
Parla di rimpasto?
«No, parlo di riforme e decisioni coraggiose. Il rimpasto è un mezzo tecnico e può vedersela da solo. Ma deve fare attenzione a non consumarsi nella mediazione».
C`è ancora tempo per svoltare?
«Sinceramente mi pare di sì, purché non se ne perda altro».
E a Renzi?
«Non posso dare consigli in una situazione interna al Partito democratico, che non conosco a fondo. Dico solo che in questo momento lui è estremamente forte e deve usare con saggezza questo vantaggio. Per prima cosa deve mettersi attorno gente che conosca l`economia e la politica estera».
Vuol dire che la sfida si gioca oltre i confini?
«Si gioca dentro e fuori. Perché all`estero devi presentarti con una politica interna credibile, per cercare alleanze in grado di proporsi come alternative a una certa egemonia tedesca. Nessun Paese da solo può vincere questa partita. Italia, Francia e Spagna insieme possono farlo. Ma devono avere le carte in regola».
Lei sente aria di elezioni?
«Sono fuori dal giro ristretto in cui si decide se andare al voto. Ma so per esperienza che su queste decisioni giocano molto fattori ambientali e soprattutto emotivi. Ho imparato che la politica non è certo il luogo della razionalità assoluta».
Ma c`è anche profumo di staffetta, e qualcuno dice che a furia di ricordare analogie con quel 1998, quando D`Alema le successe, qualcosa potrebbe ripetersi tra Renzi e Letta.
«Confesso che a distanza di tanti anni non ho ancora capito perché nel `98 si sia agito in quel modo. Ma mi è chiaro che quello fu un suicidio politico e spero che stavolta non si ripeta. Allora non fu ucciso solo un disegno di governo ma anche la speranza di un Paese. Questo fu il danno più grave».
Ha detto, di recente, in un`intervista al Corriere che non intende fare il capo dello Stato.
«Lo confermo».
Perché? A furia di subire tradimenti, non ama più il suo Paese o la politica?
«Il mio Paese lo amo follemente e la politica ancora di più. Ma devo prendere atto di essere diventato obsoleto in un dibattito politico, diciamo così, due punto zero, in cui le parole sono più veloci del pensiero e in cui io non riesco più a capire».
Il Senato è terreno di scontro, dopo la decisione del presidente Grasso di costituire Palazzo Madama in giudizio nel processo di Napoli che vede Berlusconi imputato della compravendita dei parlamentari, grazie alla quale sarebbe poi caduto proprio il secondo governo Prodi nel 2008. Come giudica questa decisione?
«La giudico con gli occhi e le parole di chi guarda questa vicenda dall`estero, e la considera l`episodio più grave di tutta la storia politica italiana. Mi colpisce come in Italia la compravendita di senatori sia stata sottovalutata e derubricata a poco più che un incidente. Essa ha prodotto un danno ai partiti e alle istituzioni nella forma più lesiva per la democrazia. Perciò credo che la difesa del Senato come istituzione fosse quanto meno doverosa. Se poi per formalizzarla si sia trovata una procedura intelligente, o piuttosto no, è un altro discorso».
Però succede che prima una commissione parlamentare si pronunci per il no alla costituzione di parte civile e poi si avochi la decisione, ribaltandola. Non le pare che qualche dubbio sorga sulla bontà della risposta istituzionale?
«Può darsi, ma non entro nell`autonomia delle istituzioni. Dico però che la compravendita di senatori è una lesione, per la quale il Senato come istituzione e i partiti come difensori della democrazia avrebbero dovuto reagire con il senso più forte del vulnus».
Perché il trasformismo in Italia da meccanismo adattivo della democrazia diventa spesso pratica criminogena?
«Non me la sento proprio di configurare ciò che è accaduto come trasformismo. Questa vicenda è un attacco al fondamento dello Stato e al luogo, il governo, dove si prendono le decisioni più importanti. Ripeto, è incredibile che ciò faccia indignare gli osservatori stranieri e qui passi sotto traccia».
Torniamo allora al suo ultimo giorno da premier, cioè a quel 24 gennaio 2008 quando fu sfiduciato al Senato con 161 voti, contro i 156 favorevoli a lei. Che cosa ricorda o che cosa intuì?
«Intuii che c`erano tante cose che non capivo. Le voci si rincorrevano, ma un`operazione truffaldina era, per un uomo ancorato al patto di lealtà parlamentare, inaccettabile. Certo, se avessi avuto prove avrei reagito con decisione immediata. Ma finii per convincermi che tutto fosse frutto di chiacchiere. Poi, quando ho ricevuto la lettera di De Gregorio con la sua confessione e le sue scuse, è stato un colpo». Lei figura come uno dei principali testimoni dell`accusa al processo che si aprirà a Napoli martedì prossimo. Che cosa dirà? «Per ora nessuno mi ha chiamato. Certo, non potrò che confermare di aver ricevuto quella lettera. Non posso aggiungere altro».
da il Mattino