Il presidente di Confindustra Giorgio Squinzi ha invitato il premier Enrico Letta al
direttivo dell’associazione del 19 febbraio e nel contempo «a presentarsi all’appuntamento portando delle soluzioni», aggiungendo che «se altrimenti arriverà con la bisaccia vuota, gli industriali si rivolgeranno al capo dello Stato».
È un invito ad un cambio di passo del premier che gli industriali hanno tutto il diritto di fare, anche se si può avanzare qualche dubbio sulla procedura costituzionale immaginata dalla Confindustria.
Nel contempo si vorrebbe rivolgere agli industriali qualche domanda sul loro ruolo nello sviluppo del Paese. È vero che soprattutto le piccole e medie imprese si stanno dando da fare per sostenere il nostro export, e gliene va dato merito, ma non per seguire lo storico ammonimento del presidente Kennedy agli americani «chiedetevi voi quello che potete fare per il Paese», si vorrebbe capire se, oltre alle solite legittime domande su Irap e cuneo fiscale, gli industriali della Confindustria, quelli medi e grandi, hanno qualcosa da offrire al Paese. Per esempio nell’ambito del programma governativo «Destinazione Italia», approntato per aumentare la quota di investimenti diretti esteri che, come è noto, sono in Italia i più bassi del mondo, qualcosa si può aspettare anche da loro. Il Paese cresce poco da vent’anni per carenza di consumi ma anche per scarsi investimenti, soprattutto quelli industriali in macchine ed attrezzature.
Non perché mancano le risorse, semplicemente perché si preferiscono altre alternative,
investimenti finanziari e/o investimenti diretti all’estero. Da più di dieci anni gli Ide (investimenti diretti esteri, cioè quelli nell’economia reale) fatti all’estero dai nostri industriali sono mediamente tre volte superiori agli (investimenti diretti esteri in Italia. Nel quinquennio 2007-2012 gli (investimenti diretti esteri all’estero di industriali italiani sono stati 38 miliardi di euro l’anno, nello stesso periodo gli (investimenti diretti esteri dall’estero sono stati 13 miliardi l’anno.
È stato detto autorevolmente: «Gli investimenti esteri? Vanno promossi ma insieme a quelli nazionali. Le imprese italiane hanno circa 70 miliardi di euro attualmente impiegati in strumenti di liquidità. Basterebbe usare quelli per recuperare gran parte degli investimenti perduti negli ultimi anni». Chi parla è Vittorio Terzi di Mc Kinsey che ha diretto la ricerca «Investire nella crescita: idee per rilanciare l’Italia» (Corriere della Sera del 30 settembre 2013). I dati dimostrano che i contributi maggiori che gli industriali italiani hanno dato in questi anni per aiutare il Paese ad uscire dal baratro si sono rivolti in due direzioni, investimenti finanziari di liquidità, con uno stock stimato in 70 miliardi ed investimenti diretti esteri dal flusso annuo di 38 miliardi. Con una differenza importante a nostro sfavore, mentre gli Investimenti diretti dall’Italia all’estero (out) sono stati al 90% green field, cioè nuovi impianti
industriali, a prova positiva della fiduci a italiana nella globalizzazione, la totalità degli Investimenti diretti dall’estero all’Italia (in) è servita a fare shopping di bocconi prelibati, senza alcun contributo immediato a Pil ed occupazione: Bulgari, Parmalat, Loro Piana, Avio spa, Ansaldo energia, Telco Telecom, Ducati, Rinascente, Pomellato, Gancia, etc.
Allora, caro dottor Squinzi, chieda pure al dottor Letta di presentarsi con una bisaccia
piena di «doni» per l’Italia, ma per favore, ci dia pure lei qualche buona notizia, qualcosa che gli industriali, cui i profitti non sono mancati neanche negli anni di crisi, possano fare per aiutare l’Italia a uscire dal baratro.
da L’Unità