Se tutto va bene, Alitalia troverà in Etihad, la linea aerea di Abu Dhabi, un «partner dominante» (qualcuno potrebbe dire un «partner padrone») migliore di Air France. E questo, prima di tutto, per un motivo geografico, o, se si preferisce, geo-economico: le rotte servite da Alitalia sono relativamente ben integrabili con la rete di collegamenti aerei internazionali che Etihad sta tessendo da Abu Dhabi, assai più difficili da conciliare con la rete che Air France ha già tessuto da Parigi.
Di qui si può trarre un’importante, anche se paradossale, conclusione: la linea aerea italiana salverà, almeno in parte, la propria italianità, e quindi potrà continuare ad assicurare all’Italia collegamenti a livello mondiale, unicamente diventando non solo meno italiana ma anche meno europea.
L’insufficienza di soluzioni nazionali e la scelta tra soluzioni europee e soluzioni mondiali, tra sopravvivenza e indipendenza, non è un problema isolato di Alitalia. L’ex compagnia di bandiera è, in un certo senso, emblematica di quanto sta succedendo al mondo delle grandi imprese italiane. Per un complesso di motivi che non è il caso di analizzare qui ma che ormai dobbiamo considerare come dati di fatto, l’industria italiana di dimensioni grandi e medio-grandi, che aveva reagito molto bene all’impatto dell’unificazione economica europea, non riesce a reagire altrettanto bene all’impatto della globalizzazione. Sta subendo, invece di governare i cambiamenti che la globalizzazione sta rapidamente portando nei modi di produrre e di organizzare la produzione.
Il fattore scatenante di questa debolezza varia da caso a caso, da periodo a periodo: talvolta si tratta della rigidità dei meccanismi economico-sindacali, altre volte della debolezza strutturale del sistema finanziario che ha sempre maggiori difficoltà a fornire alle imprese finanziamenti «giusti» dal punto di vista della quantità e qualità. La difficoltà delle imprese italiane di reggere da sole il confronto mondiale può derivare inoltre dalla carenza di molte infrastrutture pubbliche o anche da una possibile diminuzione della «voglia di fare impresa» degli italiani, e persino dalla scarsa sensibilità economica della magistratura che ha messo a rischio, in alcuni momenti, la sopravvivenza di un settore produttivo importante come quello siderurgico. L’importante è che, per operare bene sui mercati internazionali, al sistema produttivo italiano manca qualcosa e che a queste carenze non si può porre rimedio tanto facilmente.
La soluzione Alitalia mostra una via d’uscita non certo ideale, ma per lo meno soddisfacente, alle debolezze strutturali italiane: l’ingresso in un gruppo non italiano, con il mantenimento di un certo grado di indipendenza non solo operativa ma anche strategica, magari con un aumento di capitale sottoscritto dai nuovi soci che si traduca in un insieme di nuovi investimenti. Così Alitalia, pur senza poter più mirare alla posizione centrale di British Airways, Lufthansa e Air France, potrebbe almeno coprire lo scacchiere europeo della rete mondiale di trasporti aerei che ha il suo centro fuori dell’Europa, ossia negli Emirati Arabi Uniti. Per i nuovo soci extra-europei di Alitalia, la convenienza deriverebbe dall’acquisizione dell’esperienza, del capitale umano, delle conoscenze tecniche di Alitalia, tutti elementi importanti di una strategia industriale che richiederebbero lunghi anni per essere acquisiti da Etihad.
Scelte analoghe si impongono, e si stanno verificando, in molti altri settori, specie là dove il contrasto tra buone posizioni di mercato e buone tecnologie da una parte e carenze strutturali italiane dall’altra è più duro e marcato. E sono decine, se non centinaia, le imprese italiane che stanno facendo scelte di questo tipo o che le hanno fatte negli ultimi 18-24 mesi. L’acquisizione di Loro Piana, impresa tessile di grandissimo nome e grandissima qualità produttiva, da parte della multinazionale francese del lusso Lvmh può essere considerata una variante di queste soluzioni.
Un’altra variante, con una ben più forte componente italiana ed europea, è rappresentata dalla fusione Fiat-Chrysler: in questo caso sono italiane sia l’iniziativa sia buona parte dei mercati di sbocco e delle tecnologie ma per il nuovo colosso mondiale dell’auto la sfida è quella della costruzione congiunta di nuove auto globali. In ogni caso, in un futuro sempre più prossimo, se il mercato globale continuerà a svilupparsi nonostante la crisi, saranno molte le imprese che perderanno le caratteristiche tipicamente nazionali. Saranno globali, e basta. Simbolo e pilastro di una nuova economia in cui le componenti nazionali saranno più importanti sul piano culturale che sul piano economico.
In questo contesto, l’azione dei governi, e specificamente del governo italiano, non potrà limitarsi a interventi episodici in situazioni di emergenza e non potrà consistere nella promessa di aiuti che non possono certo derivare dalla finanza pubblica italiana. Si tratta invece di traghettare l’economia italiana in questo nuovo contesto globale, privilegiando l’identità rispetto alla nazionalità. Questo comporta la definizione di strategie nazionali di crescita delle quali le forze politiche parlano molto senza mai scendere a casi concreti. Nel far questo l’Italia può imparare qualcosa proprio da Abu Dhabi e dall’intera regione del Golfo: i Paesi di quest’area si stanno preparando, con importanti progetti alternativi e con investimenti giganteschi, alla prospettive di minori entrate petrolifere nei prossimi 2-3 decenni. L’Italia è tutta assorbita dagli sviluppi, giorno dopo giorno, del suo teatrino della politica che rischia di diventare sempre più truculento e sempre più inconcludente.
da La Stampa