Scrivo con l’ultimo residuo di batteria del mio pc, mentre, a pochi passi da San Pietro, nella capitale d’Italia, molti isolati ed edifici sono senza corrente elettrica da ore. Roma è rimasta quasi isolata: strade consolari allagate, il Gra interrotto, voragini che si aprono dovunque. L’Italia tirrenica è sotto la tormenta e piove in poche ore la stessa acqua che un tempo cadeva in mesi.
Ma questo ormai lo sanno anche i sassi: bombe d’acqua le abbiamo chiamate un po’ impropriamente, e sono figlie di un tempo meteorologico che si è fatto estremamente variabile e di un clima complessivamente molto più caldo rispetto agli ultimi decenni. E’ gennaio ma non fa freddo: abbiamo avuto temperature atmosferiche fino a 15°C. E, non a caso, piogge torrenziali. E siamo andati vicini al disastro: se oggi piovesse in Arno l’acqua che è piovuta nel novembre del 1966, avremmo danni molto più gravi e vittime a Pisa e a Firenze.
Se piovesse con continuità lungo tutta l’asta fluviale del Tevere, nemmeno la città eterna sarebbe immune da una dolorosa alluvione che invaderebbe pure il Vaticano, Trastevere e Piazza Venezia.
Sembra quasi che a ogni pioggia abbondante (per fortuna nessuno le chiama più eccezionali) le cose vadano addirittura peggio. Ma come, non abbiamo ormai tecnologia e strumenti sofisticati per regolarci meglio? Effettivamente le previsioni del tempo sono oggi davvero molto attendibili e gli scenari ipotizzabili con precisione: possiamo seguire l’andamento delle tempeste e individuare i punti di atterraggio dei cicloni.
Ma l’unico vantaggio rispetto al Medioevo è questo, per il resto siamo indifesi rispetto agli eventi meteorologici come secoli fa: uomini in mezzo alla tormenta. Anzi, in un certo senso, siamo più indifesi di allora, perché il nostro territorio è complessivamente più fragile: non sono cambiate solo le piogge, sono cambiate anche le città.
I corsi d’acqua sono stati fatti sparire sotto la terra e i palazzi, oppure precipitati in fondo ad argini di pietra in cui sono stati dimenticati. E tutto attorno le aree di naturale esondazione dei fiumi, quelle che, da sole, difendono le aree inurbate, sono ormai invase dalle costruzioni. In questo paese si è costruito troppo: ogni anno si asfaltano e cementificano forse duecentomila ettari di suolo, con il risultato di un rischio idrogeologico in progressivo aumento, invece che in diminuzione.
Perciò non è un problema di tecnologia: di quella ne abbiamo fin troppa e, anzi, l’affidarcisi troppo rende meno pronti al momento in cui, comunque, toccherà affrontare la natura, questo mostro che tentiamo di tenere fuori dalla nostre mura domestiche per undici mesi all’anno, illudendoci invano di recuperarlo solo durante le ferie. E’ una questione culturale: con gli eventi naturali bisogna farci i conti prima di tutto accettandoli. Non saremmo mai immuni, rassegniamoci.
Soprattutto rispetto al clima. E hai voglia a tenere pulite le caditoie, i greti dei fiumi, e i tombini dalle foglie morte e dalla immondizia (tutte cose comunque da fare), qui il problema è che riduciamo queste operazioni a un fatto puramente tecnico, mentre meriterebbero ben altra cura, comprensione e ragionamenti. I romani antichi non si scomponevano poi troppo ad attraversare il Velabro in barca, qualche volta all’anno, e uno dei monumenti più vistati di Roma è la Bocca della Verità (dove non si deve infilare una mano se si è bugiardi), che altro non è che un inghiottitoio per l’acqua di pioggia, cioè un tombino, cui i nostri antenati dedicavano marmi pregiati e sculture dell’oceano con i delfini. Si chiamava rispetto per la natura. E consapevolezza che essere invulnerabili non è prerogativa dei viventi su questo pianeta.
La Stampa 01.02.14