Non è un segnale di maleducazione, è un sintomo di disperazione. È comprensibile che davanti a certi spettacoli vergognosi in Parlamento, alle risse, agli schiaffi, agli insulti più volgari, ci si indigni e si invochi un minimo di rispetto per le istituzioni, ma soprattutto un minimo di rispetto per se stessi. È pure comprensibile che la memoria si eserciti nel confronto sia con la storia del nostro, non sempre fulgido, costume parlamentare, sia con quello, ancor meno invidiabile, di alcune aule terzomondiste. Ma se fosse solo un problema di etichetta, quello che si imputa ai parlamentari grillini, forse basterebbe aspettare che il noviziato movimentista degli adepti di Grillo si consumi nella routine dei lavori alle Camere e nell’indifferenza di un clamore mediatico sempre bisognoso di furori inediti per potersi alimentare.
La vera questione è un’altra e riguarda, in fondo, quei quasi dieci milioni di italiani che avevano sperato nell’effetto taumaturgico della presenza di un forte «Movimento 5 stelle» in Parlamento e che vedono quella promessa di essere gli «apriscatole» della politica italiana ridursi miseramente alla realtà di semplici «rompiscatole».
Costretti ad alzare sempre di più la voce e a inventare iniziative sempre più clamorose e improbabili per segnalare l’utilità della loro azione. Tutto quello che sta avvenendo nelle aule parlamentari indica chiaramente la consapevolezza, da parte dei grillini, del fallimento di una strategia tanto ingenua quanto suicida, quella del rifiuto assoluto a qualsiasi trattativa con gli avversari. Una strategia che in politica è sempre sbagliata, come la storia insegna, dalle «mani nette» di Giolitti all’Aventino.
La sensazione di un terribile errore, da parte del «Movimento 5 stelle», è acuita, tra l’altro, dalla contemporanea irruzione nella politica italiana di Renzi e dell’ipotesi di un sorprendente suo successo nell’ottenere proprio quei risultati di sblocco di una lunghissima impasse politica che erano l’obbiettivo sbandierato da Grillo. Una concorrenza, anche mediatica, che non solo oscura il carico di novità portato dal «Movimento» nella vita pubblica italiana e ne denuncia la scarsissima reale efficacia, ma rischia di comprometterne perfino l’esistenza. Se la legge elettorale in discussione alla Camera, infatti, dovesse completare il suo iter, arrivando alla sospirata approvazione in termini relativamente brevi, i grillini sarebbero condannati alla più sterile delle opposizioni, senza alcuna speranza di influire nella vita politica italiana, non per loro volontà, questa volta, ma per volontà altrui.
Ecco perché l’esasperazione dello scontro, al di là del folklore psicomotorio e della indecenza parlamentare fino alla richiesta di messa in stato d’accusa di Napolitano, una mossa così assurda da denunciare palesemente la sua strumentalità propagandistica, punta a impedire, ad ogni costo, il varo di una legge che ridurrebbe l’attuale tripartitismo quasi perfetto del nostro sistema politico in un bipartitismo altrettanto quasi perfetto. Nella speranza che, dopo il naufragio della riforma elettorale, naufraghi anche la legislatura e si vada a votare con quel proporzionale puro che la Corte Costituzionale ci ha regalato. L’unica prospettiva che consentirebbe al «Movimento 5 stelle» di continuare ad esercitare il ruolo di interditore assoluto. Un ruolo che gli permetterebbe di costituire l’unica forte opposizione a future, obbligate e sempre più difficili, «larghe intese».
L’ipotesi di una chiamata alle urne in primavera per rinnovare il Parlamento nazionale, magari in abbinata con le elezioni europee, consiglia, poi, al «Movimento», di intensificare la propaganda contro l’euro; battaglia che il demagogico «spirito dei tempi» assicura rivelarsi molto promettente. Cavalcare il populismo delle destre continentali, del resto, non sarebbe un problema per un «Movimento 5 Stelle» che, sulla protesta traversale agli schieramenti, ha trovato il successo elettorale. Anche in questo caso, però, le fondamentali regole della politica, quelle che valgono in tutto il mondo, potrebbero consegnare lo stesso risultato fallimentare. Come in Italia, per cambiare davvero qualcosa, non bisogna auto-escludersi dal gioco, così anche uscire dall’Europa e dall’euro non servirebbe a mutare alcunché nelle strategie economiche continentali. Servirebbe solo a lasciare alla nostra moneta il destino del peso argentino e a impoverire, di colpo, la grande maggioranza degli italiani. Ma, quando si è in preda alla disperazione, non si ha voglia di ascoltar lezioni.
La Stampa 31.01.14